Revolutionary Road (2008, di Sam Mendes)
Splendido film, si presta per una considerazione. Splendido in tutto, recitazione, regia, fotografia, storia, tragedia greca, ma… sarebbe potuto finire nell’accettazione della banalità di una vita non desiderata. Che dramma più grande c’è di una non-fine, di una non vita, della banalità dell’essere, della passività dell’esistenza? Invece si cede alla “necessità” dell’evento attivo, del suicidio indiretto. Il dramma fisico speso come evento eclatante, evidentemente più forte, più drammatico. Triplo botto finale. È l’emozione dell’esplosione, è verticalizzazione del dramma. È azione, e in quanto tale è fatto. In una logica concreta, materialista si trascende l’emozione interiore con l’esplicitazione del fatto esteriore. È scelta filmica. Fa da contraltare l’occasione mancata, evidentemente volutamente, del dramma orizzontale, del non-atto, della comunicazione dell’assenza. Il film è qui; l’accettazione della passività è assenza e “l’assenza è un assedio” (P. Ciampi). La destabilizzazione psicologica trova nel “vuoto” dell’azione l’urlo della disperazione. Se ci fosse stata “assenza”, se si fosse tolto invece di aggiungere, se ci fosse stata negazione dell’azione, sarebbe stato capolavoro, destabilizzante, inquietante, terrorizzante. Sarebbe stato un film sull’assenza di comunic-azione. È comunque grande film.
PS: si tralasciano le collaterali considerazioni di cassetta che appaiono interne alla “necessità” di cui sopra.
Marco Valerio Masci
(da FB del 23 gennaio 2010 e qui modificato)