Allan Holdsworth & Bill Connors

Allan Holdsworth & Bill Connors

Bill Connors l’ho sempre ritenuto affine ad Allan Holdsworth, Bill più incline all’arpeggio e Allan più alla singola corda, più assonante Bill e più dissonante Allan, più lineare e armonico Bill, più complesso e articolato Allan, differenti nel dettaglio e interscambiabili per tessitura melodica complessiva. Questa sovrapponibilità mi ha indotto a trascurare gran parte dell’opera di Bill ritenendolo subordinato, più “facile”, surrogato di Allan. E mi sbagliavo. Una analisi correlata non può essere credibile se parziale, e nella parzialità si possono nascondere elementi mancanti, “nuovi”, capaci di dirottare e ribaltare completamente presupposti iniziali evidentemente minimali. A rimescolare le carte sono stati due amici, grandi esperti e collezionisti di musica, Fabio M. che da decenni mi dice “Bill Connors fa cose davvero interessanti, particolari e innovative…” e Marco E. S. che recentemente e a più riprese portava alla mia attenzione tre brani di Bill estratti da “Step It”. L’uno ha esercitato in me la forza della goccia cinese, l’altro della martellata, sollecitazioni spettralmente differenti, tra diluizione reiterata e colpo secco una tantum, per stimolare in me una risposta unica; “il mettersi in discussione”.

Partiamo da un assunto generale, Allan è acclarato e Bill sottostimato, Allan ha scritto la storia musicale e strumentale della chitarra elettrica, Bill con meno clamore. A questa tendenza aggiungiamo che Allan è stato il chitarrista/musicista preferito da Frank Zappa in ambito “rock” [1].


[1] Zappa lo dichiara durante un’intervista di Harry Smith (CBS, “This Morning”, 9 giugno 1989) durante la quale, sollecitato a citare, se graditi, i musicisti di Allan, risponde con la sua ironia tipica multi-livello <<su questo manteniamo il “segreto”>> citando il nuovo album di Allan, “Secrets”, dove alla batteria c’è lo zappatista Vinnie Colaiuta.

E già in questa premessa, eccessivamente netta e divisiva, ci sarebbero tutti gli elementi per subodorare un’ingiustizia, e dove c’è ingiustizia ci sono già le condizioni per intervenire e tentare di ripristinare una quadro di per sé evidentemente scombinato, manomesso o semplicemente “non finito”.  L’accusa “Bill è un surrogato di Allan” suona melliflua. Entriamo nel merito. La sovrapposizione “musicale” tra i due è palese all’istante, ma su un piano superficiale, veloce, che porta ad un giudizio analogamente superficiale. Ma il contesto in questo caso è diverso, lento, denso, e richiede tempi tutt’altro che istantanei per indagare dettaglio e contenuto. Ripercorriamo quindi gli inizi musicali di Allan e Bill per comprendere quale sia stata la loro “partenza” musicale.

In “Hurdy Gurdy Man” (1968), di Donovan, Allan avrebbe suonato una delle due chitarre, forse con Page, ma sonorità e tecnica non rivelano ancora alcuna anticipazione del suo futuro modo di suonare, benché il brano in sé sia anticipatore di “distorsioni assonanti” mai sentite prima, strumentalmente diverse, che mettono insieme due mondi, ghironda (hurdy-gurdy) e chitarra elettrica. L’Allan che verrà lo troviamo per la prima volta nel 1972 nel brano “Upon Tomorrow” con i Tempest dove suona chitarra e violino ed è con quest’ultimo che rivela sonorità e legati che anticipano e delineano la sua personalità compositiva futura. E’ proprio il violino con la sua fisiologia sonora, unitamente alle nuove opportunità tecniche offerte dall’elettronica abbinata alla chitarra, a rappresentare il deus ex machina che gli suggerirà la possibilità di traghettare quelle sonorità verso la chitarra elettrica. Il violino è l’archetipo di Allan che suonerà la chitarra elettrica con legati e continuità tipiche del rapporto “corda-archetto”. È una scoperta tecnico-lessicale epocale, che rinnova l’arte della musica. Ma passerà tempo prima che quel “primo segno” venga riconosciuto e trasformato in chitarra. Il percorso di trasposizione linguistica dal lessico elettrico di quel violino a quello della chitarra sarà progressivo, prima con i Soft Machine (1975, “Bundles”) e poi con i Gong (1976, “Gazeuse”), e sarà esplicito nelle parti elettriche del primo suo lavoro, “ Velvet Darkness” (1977), dove, unitamente ad echi dell’esperienza “Gong”, sviluppa compiutamente il suo pattern musicale “finitamente infinito”, intelligibile melodicamente benché con andamento lento e dilatato. I brani più significativi sono gli elettrici “Velvet Darkness” e “Wish”, unitamente a “Karzie Key” dove risuona il “radicale” violino.

Gli inizi di Bill sono su due fronti, elettrico e acustico. Quest’ultimo molto intenso si colloca tra musicisti illustri e gli ambiti dell’etichetta ECM; “Quiet Song” (1975) e “Pyramid” (1977) con Paul Bley, Lee Konitz e Jimmy Giuffre, solista in “Theme To The Gaurdian” (1975), “Of Mist And Melting” (1978) con Gary Peacock, Jack DeJohnette e Jan Garbarek. L’innesto elettrico si manifesta subito, nel 1973, all’interno del capolavoro “Hymn of the Seventh Galaxy” in squadra con i Return To Forever, in particolare nel brano “The Game Maker”, in altre importanti partecipazioni con Stanley Clarke nel 1974 e in “Where Have I Known You Before” (settembre 1974) sempre con i Return to Forever. Il riferimento chitarristico cogente è l’ex Zephir, Tommy Bolin (in Spectrum di Cobham, ’73), e John Tropea (in Prelude di Deodato, ’73), Bill parte dalle loro sonorità per inserire elementi personali che anticipano, a tratti e più in chiave rock, sonorità e legati tipici dell’Allan del ’77 e del primo Al Di Meola del’78.

Bill (September 24, 1949, Los Angeles, California, U.S), più giovane di Allan di 3 anni, anticipa musicalmente di circa tre anni sia Allan (6 August 1946, Bradford, England – 15 April 2017, Vista, California, US) che Al Di Meola e poi lascia inaspettatamente quel “modo” di suonare cambiando repentinamente rotta, tornando a riabbracciare la chitarra acustica per Carla Bley, Lee Konitz e Jan Garbarek nel ’77-’78. Questa scelta lo allontana dalle sonorità elettriche, scelta radicale,  al servizio della “squadra”, a ricucire più che emergere, per contrappunto acustico più che per continuità elettrica. Ad agosto 1979 pubblica “Swimming with a Hole in My Body”, un altro lavoro acustico da solista.

Poi una lunga pausa musicale fino al 1984 quando esce con “Step It” dove riprende ed esplicita la trasformazione elettrica accennata dieci anni prima. È un fulmine a ciel sereno, con sonorità e con caratteristiche che lo avvicinano a quelle di Allan, con tale e tanta assonanza da far pensare al plagio stilistico quando invece tanta esplicitazione non può essere altro che un “urlo di paternità”, a rivendicare le primigenie anticipazioni del ’73-74 abbandonate per altri lidi, meno espliciti, più rarefatti e sperimentali, sicuramente meno rock e quindi meno popolari.

Strana storia tra Allan e Bill. Il primo accenna il proprio “modo” nel ’77 con “Velvet Darkness” per poi esplictarlo definitivamente nel 1982 con il capolavoro “i.o.u.”. Bill lo inventa, lo lascia, poi lo riprende, Allan lo sviluppa, lo mette a sistema e lo evolve. In tutto questo la pausa di Bill lunga sei anni che si colloca a cavallo del 1982, l’anno dell’esplicitazione di Allan.

È una storia reciproca e inversa a quella di Jeff Berlin che abbacinato dal primo disco di Jaco Pastorius ne venne risucchiato stilisticamente a tal punto da rischiare di perdere il proprio modo di suonare. Per uscirne decise di “uccidere” musicalmente Jaco non ascoltandolo più. Ma ad un ascolto attento dietro la tipica e inconfondibile sonorità “rasposa” di Jeff, si scorgono legati, scivolamenti e sonorità che mascherano quella fascinazione ma non la cancellano. Ecco, è un po’ quello che sembra sia accaduto a Bill che sarebbe un ipotetico Jaco che rinuncia al proprio modo di suonare, e Berlin (Allan) che se ne appropria proseguendolo ed evolvendolo. Non c’è dubbio, in “Step It” c’è quel modo difficilmente distinguibile da quello di Allan, ma quel modo lo avrebbe iniziato Bill che poi, a differenza di Jaco, lo lascia. E qui Bill sembra andare in crisi, a confermarlo sarebbero i sei anni di stop coincidenti con gli anni dell’esplicitazione di Allan con capolavori come “Road Games” e “Metal Fatigue”, e “Step It” rappresenterebbe proprio il tentativo di Bill di riappropriarsi di quel modo abbandonato per scelta, per dire altro altrove. Musicalmente le due entità pur coincidendo nulla tolgono l’una all’altra, e Allan risulterà l’inventore di quel “modo”.

Bill proporrà quel modo in altri due lavori, “Doble Up” e “Assembler”, quest’ultimo, più arpeggiato, accenna un leggero distacco da Allan come a riconoscerne l’afflato nel tentativo di trovare un altro differenziale musicale. Ma quando ci si distacca l’altro si radica ancora di più. E arriva alla rinuncia con “Return” (2004), ultimo suo lavoro dove azzera tutta l’esperienza precedente abbandonando l’acustica, le due paternità elettriche, quella netta di Allan e quella meno esplicità di Al Di Meola, per avvicinare la chitarra jazz “classica” (non quella di “Of Mist and Melting”) , a tratti methenyana (quando Metheny è classico). Bill è in quel minimalismo mimetico e raffinato della chitarra acustica tra il ’74 e il ’79, dove emerge per sottrazione e non per sovraesposizione, per poi rinnegarsi e cercare di ribadirsi recuperando la paternità delle prime esperienze elettriche come avesse ritenuto la sottrazione un segno di debolezza e l’esposizione un segno di forza, come avesse capito che la forza comunicativa delle prime esperienze elettriche l’avrebbe spesa per lavori “propedeutici”, lavori che diverranno espliciti nel ’75 con “Romantic Warrior” (Return To Forever) e nel ’76 con il rivoluzionario “School Days” (Stanley Clarke), come avesse capito di aver tagliato il traguardo con troppo anticipo decidendo di fare poi un altro giro, come non avesse ritenuto quel “modo” auto-sostenibile se non al solo servizio del gruppo, come non avesse capito quanta personalità ci fosse in quel “modo”.  O, diversamente, come se lo avesse capito a tal punto da superarlo subito sostituendolo cercando altro. Congetture. In fondo chiunque comunichi esplora per trovare qualcosa da comunicare, e la musica non è come l’oro dove una pepita tira l’altra, la musica, l’arte in genere, è come la neve, si scioglie quando la si “scopre” e l’ombra la mantiene ma allo stesso tempo la nasconde. La musica è fatta per sciogliersi al sole in attesa di una nuova nevicata. E chi la porta in alto la ghiaccia e la rende eterna.

Allan capì quel “modo” e lo isolò facendolo crescere fino a farlo diventare “modo in sé”, indifferente ai generi e al sole, trasformandolo da montagna in ghiacciaio. Quando Bill lo capì lo urlò con “Step It” (calpestalo!), titolo che sembra andare oltre la contingenza del lavoro a cui si riferisce per lapidare una relazione a distanza trovata ma non voluta. In quegli anni un anno musicale ne valeva dieci, tutti si rincorrevano per passare il testimone di una staffetta continua. La creatività non faceva prigionieri, e qualcuno si perdeva tra scelte difficili e previsioni impossibili, altri avevano talmente tanto da dare e dire che si spendevano viaggiando musicalmente ovunque. Bill ha viaggiato musicalmente più di Allan, ha distillato idee e la più riuscita è stata affiancata da Allan che l’ha scolpita, delineata e pietrificata. La goccia di Connors ha modellato la roccia, la goccia di Allan l’ha resa scultura, montagna. I caposaldi “Hymn of the Seventh Galaxy” e “Stanley Clarke” sono lavori a cui Allan Holdsworth e Al Di Meola devono molto, lavori che artisticamente segnano un avvio, lavori iniziatici e pertanto fondamentali, lavori che pongono Bill Connors a ragione tra i più grandi musicisti di sempre e la storia della musica non può glissare su una particolarità rilevante; l’archetipo “capostipite” è l’ovvio, l’archetipo compartecipato, duplice, parallelo, quello di Bill e Allan, è raro. E ad oggi, a distanza di circa 40 anni, quel “modo” non è stato raccolto da nessuno, è ancora solo loro e lo sarà per sempre tanto è pieno di “personalità”, paradossalmente “condivisa”.

Bill apre e Allan chiude.

Marco Valerio Masci

Immagine di testa – Marco Valerio Masci, “piccolo e Gran Sasso” (‎08 .09.‎2010) – fotocomposizione.

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