Carnage (2011, di Roman Polański)
Abuso di alcool, psicofarmaci e noia (quest’ultima è l’abuso peggiore, strettamente connessa ai primi due), derivati diretti dell’assenza di interessi, generano un vuoto interiore che destabilizza, altera la visione della realtà, alimenta la nevrosi fino alla schizofrenia, e porta esasperazione. Il tutto raccontato in chiave circoscritta, claustrofobica che tende ad amplificare i comportamenti facendoli apparire teatrali, frutto di “recitazione interiore”, egoica, inversa, per emozionare sé stessi, non l’altro. I protagonisti sono tutta percezione senza comunicato. E qui c’è l’invenzione. La recitazione contraddice la sua regola aurea; non emozionarsi per emozionare, per emozionarsi apparendo altro da sé, per sé, non per l’altro. La nevrosi fa questo, fa vedere sé stessi nell’altro, e l’unico modo per mascherarla è “mascherarsi” allontanando la noia da sé, noia del “sé” che non si piace, noia che è causa di tutto, segno di povertà interiore non più colmabile da adulti e solo occultabile con artifici comportamentali. Si diventa teatranti, non teatrali. E Polański coglie l’occasione.
Fatta la tara di questi aspetti, “sporcatelo” con queste connotazioni e tutto appare congruo e non enfatizzato, o meglio, enfaticamente motivato. Descrittore tipico delle dinamiche tra genitori, pro e contro i figli, propri e altrui. Calate il tutto in America, dove l’incomunicabilità è a livelli parossistici (il tutto ruota attorno ad una parolina magica interna alla loro struttura relazionale e dialogica, alibi di comunicabilità unidirezionale, “l’opinione”) e lo scenario descritto da Polański diventa descrittore perfetto della proiezione di sé. Allo stesso tempo, come tutti i grandi comunicati, il tutto può anche essere letto in direzione enfatica, dove l’enfasi anticipa kubrickianamente comportamenti sociali “sopra le righe”, non ancora acclarati. Carnage è quindi anche descrittore previsionale della “follia normalizzata”.
Marco Valerio Masci (12 settembre 2014)