Economia della “musica liquida” – riflessi analogici su basi digitali

Economia della “musica liquida” – riflessi analogici su basi digitali

È grande il dibattito economico e sociale che riguarda la diffusione delle arti digitali, dove cinema e musica rappresentano gli ambiti più sensibili. Il rapporto tra fruizione culturale e rendimento economico è ad un bivio, vediamo di indagarne criticità, resistenze e opportunità in relazione ad un caso specifico, la vendita della “musica liquida” da intendere come simbolica di un processo economico e artistico ben più ampio, veicolo comunicativo ad alta velocità e omnidirezionale, transnazionale, capace di accelerare nascite culturali e sociali nuove, e quindi nuove economie senza soluzione di continuità e contiguità.

Siamo in una fase di transito dove persistono concetti per lo più “ottocenteschi”, superati e quindi inattuali che appaiono “convincenti” se non affiancati da contraltari che possano aprire a visioni altre, attuali, in stato di avanzamento. Testi come “The Game” di Baricco (che mette insieme anche concetti espressi già da Keynes) fanno apparire addirittura banali queste visioni “altre” la cui comprensione richiede solo disponibilità sensoriale in proiezione per percepire un “controverso economico” di carattere mondiale già in forte fermento da almeno un paio di anni in modo “subdolo” come avviene tipicamente per tutti i cambiamenti epocali. È necessario solo essere disponibili a visioni “futuribili”, o più semplicemente alternative, per ampliare un dibattito e proiettarlo oltre il consolidato. Il tema è caldo, e come tutti i temi economici miete vittime e ci vuole molta attenzione nel trattarlo.

Dall’interno degli organi direttivi che regolano rapporti commerciali e diritti si ritiene che il mancato decollo della musica in “alta definizione” sia di responsabilità morale delle major che avrebbero fatto perdere di valore il “master” vendendo file (WAV, FLAC) ad una qualità tale da essere indistinguibili dall’originale, appunto dal master. Tale considerazione è fondamentale e non può prescindere dall’attualizzazione del significato di  “master” nel seguente scenario. Quando si crea un master si passa per una serie di registrazioni di “componenti” (dette anche “multipista”) da sommare e redistribuire per poi arrivare ad un mix finale, ad esempio stereo, che porta al cosiddetto “mastering”. Tutto questo processo oggi, e da diversi anni, è solo digitale. E qui sta il punto critico. Se quel mix fosse venduto in forma di file, a piena risoluzione e frequenza di campionamento, ovvero in formato originale (file-master), si starebbe effettivamente vendendo il “master”. Pertanto verrebbe meno la necessità, l’interesse o la curiosità, di comprare riedizioni future. Ai tempi dell’analogico ciò non poteva avvenire perché il concetto di primogenitura è insito a qualunque processo materiale, perché in ambito materiale non esiste la copia perfetta tanto da non essere definita tale, e perché qualunque supporto materiale, nel nostro caso nastro o vinile, rappresenta in sé una barriera fisica difficilmente raggirabile. E qualora fosse aggirata sarebbe possibile risalire alla radice. La consapevolezza di questo rendeva oggettivamente il master qualcosa di unico e riutilizzabile per trasferimenti in altri formati di distribuzione, anche eventualmente digitali[1]. Da qui la tutela del “master”. Ma quella tutela del “master” è oggi solo ideale in quanto risente di un approccio appunto analogico, per un’idea di tutela non più realisticamente applicabile in ambito esclusivamente digitale. E’ come analizzare un dato storico con logiche attuali. Gli antesignani di Giotto, parafrasando Gaber, risulterebbero oggi degli inetti che dipingono il cielo “tutto d’oro”.

E fin qui ci siamo. E’ storia. Altra cosa è oggi, nel 2019, derivare da tutto ciò l’inopportunità di vendere i “master digitali”, in un mondo ormai digitale, ovvero intangibile quindi inafferrabile. Qualunque considerazione non può prescindere mai dal contesto del luogo dove sussiste, dove vive. Non si può analizzare in modo analogico l’ambito digitale. Non ha senso né logico, né concreto, considerare nella musica liquida la “riscalatura” di campionamento (Hz) e/o profondità (bit) per tenersi la possibilità di riedizioni future in un mondo digitale dove, e qui sta il punto, non è possibile tenere nulla chiuso nel cassetto perché “il cassetto non esiste”. Dapprima si è iniziato con l’idea di vendere i file mp3 a prezzo minore rispetto ai formati lossless,  flac/wav, per poi capitolare perché chi compra un file flac/wav poi lo fa girare “gratuitamente” ad amici e parenti che diventano persone e poi mondo. Ormai si acquista il file digitale pagandolo un “tot” e poi si decide formato e campionamento da scaricare, o eventualmente si scaricano tutti i formati. E la scelta del formato non viene effettuata quasi mai in ragione della qualità ma soprattutto della praticità, della capienza del proprio archivio e del software/apparato di lettura. Il punto invece è un altro, il prezzo. Ad oggi la musica liquida ha un costo ancora “analogico”, ovvero rapportato al CD, quindi troppo alto. Il prezzo deve essere digitale, ovvero alto tanto quanto serve a scoraggiare la diffusione “gratuita” oltre ad essere dettato dai costi reali di produzione che non risentono più dell’incidenza della distribuzione, del supporto e del packaging e anche di altri fattori indiretti legati ad altri passaggi intermedi (stampa, ecc…) anche “qualitativi”. Il prezzo della musica liquida è ora parametrato su quello dei CD, mentre oppostamente si propone la musica in “streaming” con abbonamenti i cui prezzi portano ai produttori/artisti introiti infinitesimali. Siamo di fronte a due velocità molto diverse, una troppo lenta risente della condizione “analogica” (CD), l’altra “digitale” troppo veloce (streaming). Da un lato un costo eccessivo per l’utente, dall’altro un guadagno risibile per il produttore/artista. Nel mezzo si pone la musica liquida tramite file (WAV, FLAC, MP3, ecc…). Nello streaming è evidente l’imbuto commerciale che strozza l’utente e il produttore/artista per non mollare un approccio superato o troppo facile in ragione del fatto che non si da fisicamente nulla (file), si paga e si guadagna ad ascolto, ma il vantaggio è solo per il gestore dello streaming che dall’infinita parcellizzazione trae profitto, perché, come diceva Totò, è la somma che fa il totale. Inoltre lo streaming per ora vive su due fronti, la gratuità con bit-rate radiofonici, e tramite abbonamento con streaming di qualità, condizione quest’ultima che migliorerà in relazione al progressivo incremento della portata dei flussi digitali. La tendenza commerciale sarebbe quindi quella di andare sullo streaming perché il produttore, non lasciando nulla di fisico (file), potrebbe riservarsi la possibilità di gestire eventuali riedizioni e o riconfezionamenti, ma anche questa è una chimera che non trova alcuna reale possibilità di essere applicata pedissequamente poiché ciò che viaggia in rete non è a prova di acquisizione “impropria”.

Amazon già abbina all’acquisto del CD anche il download dei file in MP3, confermando una tendenza che prelude all’indifferenza del “software” digitale, benché per ora compresso, quindi di qualità inferiore al CD, aprendo alla futura totale diffusione digitale via streaming o tramite file. Ma la subordinazione dell’MP3 al CD rende l’operazione commercialmente curiosa e controproducente. Il servizio esorta a scaricare l’MP3 per ascoltare subito il CD in attesa che arrivi, trasformandolo da anticipatore a mezzo di diffusione alternativo al CD che perde valore.

La questione quindi torna sul prezzo in sé della “musica liquida” che dovrebbe essere di pochi centesimi per brano, (circa 1 euro per un intero album), unico modo per azzerare quasi totalmente la diffusione gratuita. Questo prezzo è evidentemente relazionato al bacino d’utenza che è mondiale, esteso e non più locale e puntuale come quello attuale e parcellizzato del CD. Non c’è altra soluzione. Per la musica liquida non è più possibile ragionare  in  relazione al mondo dei “diritti” applicati e supportati da una logica “materiale” non più sostenibile. Forse non si riuscirà nemmeno più a tutelare la “paternità” di un prodotto figuriamoci i formati diversi dello stesso. E’ in atto un cambiamento di paradigma a livello mondiale di carattere relazionale ed economico, che da caotico deve diventare sistemico. Si sta cercando di tenere ancorata la nave allo stesso porto fin quando l’imminente maremoto non la sommergerà. È lecito ed “utilitaristicamente” umano. Ma quella nave riprenderà a navigare solo se la doteremo del “teletrasporto”, che in ambito digitale esiste già.

Marco Valerio Masci


[1] benché il passaggio da analogico a digitale, soggetto a continui affinamenti procedurali, prestazionali ed evolutivi, si porti dietro la matrice analogica quindi ancora in logica di tutela.

Immagine di testa: “Raster”, foto di Marco Valerio Masci, strumento Note 4

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