La Roma è nuda

La Roma è nuda

I primi di novembre del 2021 scrivevo che tatticamente non capivo Mourinho. Mi chiedevo come mai pur essendo già in deficit di terzini sinistri sul 2-2 toglieva pure un centrale.  Non che la mia incomprensione contasse, anzi al 99.9 periodico% era rassicurante che non capissi quella scelta. Poi, riflettendoci, ho ritenuto che avrei dovuto dare per giusto a priori il suo agire perché solo partendo dalla giustezza di quell’agire ne avrei potuto capire il senso. Non c’era alcun retropensiero da fare, andava solo accettato quell’agire per individuarne la finalità reale. 

La critica attuale morde il freno ripetendosi come un mantra “Mourinho non si discute” per poi fare l’unica cosa che sa fare, criticarlo aspramente non mettendosi mai nella condizione di cercare di capirlo. E questo perché il capire è tipicamente associato a qualcosa di già sedimentato in noi, qualcosa che si aspettiamo e di conseguenza se ciò che osserviamo non fa specchio con ciò che pensiamo allora è delusa la nostra aspettativa e l’osservato è evidentemente sbagliato, non noi. Ed è per questo che tipicamente la critica si regge spesso su fattori personali, “non mi piace come gioca quindi gioca male e allora sbaglia” perché mi aspetto di vedere quello che penso di dover vedere non quello che sto realmente vedendo. Così non c’è mai sforzo; o quello che penso fa scopa con quello che osservo, oppure quello che osservo è sbagliato. Ma che critica è una critica solo autoreferenziale quando la critica dovrebbe essere tutto tranne che autoreferenziale?  Non lo capisco, pertanto, o mi adeguo stupidamente, oppure mi adeguo intelligentemente ritenendo che sbagli. Ci si sente stupidi ad adeguarsi e ci sente intelligenti a criticare, duplice modo per non argomentare e non mettere mai in discussione sé stessi, incapaci di promuovere analisi che tentino di osservare ciò che è per come è. Il gusto personale è il metro per misurare l’abilità di qualunque cosa, e lo è anche per Mourinho, deve solo montare il malcontento e i fatti negativi si trasformeranno in ragionamenti, acquistando senso in relazione ad un paradigma che tale non è “se non vinci tutto ciò che hai fatto è sbagliato”. Eppure puoi aver fatto tutto giusto ma il tuo potenziale non ti permette di vincere non essendo allo stesso livello di colui che vince. Questo aspetto fondamentale non viene mai preso in considerazione perché altrimenti non sei tifoso perché il tifoso è solo colui che pensa che la propria squadra è la più forte di tutti. Come dice Riccardo Angelini, si confonde aspettativa con speranza., quando possono sussistere entrambe. Posso non avere aspettative ritenendo la squadra poco performante ma posso sperare che vinca contro la più forte squadra del mondo. E infatti a volte succede, ma è molto raro. La palla non è tonda, è quadrata, infatti vincono sempre gli stessi. Il potenziale nel calcio è ormai quasi tutto economico. Il fattore economico ha inciso in modo prevalente dal 1974 in poi, momento in cui si affermarono i giocatori dell’Ajax che dopo tre coppe dei campioni vinte furono acquistati dalle squadre economicamente più potenti. Da allora il calcio è finanza e oggi in modo praticamente totalizzante. La lotta è tra chi sta all’interno di un certo potenziale economico, al di sotto del quale gli altri arrancano e non vincono. Quindi sarebbe praticamente impossibile vincere per chi non possieda un certo potere economico, esclusi rari casi come il Cagliari, Verona e Leicester dimostrerebbero. Ma è pur vero che Cagliari, Verona e Leicester sono outsider, mentre la Roma non lo è. La Roma è prossima al potenziale “vincente”  essendo la squadra che nel rapporto secondi/primi posti è la “migliore” di tutte le squadre di serie A, ossia, nel rapporto “secondi posti/scudetti vinti” (3/11) è quella che è arrivata più volte seconda (quarta di sempre per secondi posti dopo Juve, Milan, Inter). Quindi, vedendo il mezzo bicchiere vuoto, la Roma è la squadra più “perdente” d’Italia, mentre, vedendo il mezzo bicchiere pieno, la Roma è la squadra meno “vincente” d’Italia. Ognuno la veda come vuole, fatto sta che la Roma non riesce a fare il salto.

Il punto critico lo avrebbe ben individuato Mourinho. Quella piccola distanza tra piazzato e primo posto diventa enorme e invalicabile perché si pensa sempre di colmarla con fattori non interni alla squadra, con allenatori e tifosi che rappresentino il valore aggiunto per spremere e far dare alla squadra  quello che non ha. Sopperire alle mancanze tecniche attraverso la leva di comando (allenatore, il peso economico che costa meno)  e attraverso il cuore (tifosi, che pagano pure). Una squadra ha una storia e l’allenatore migliore va verso le squadre migliori, segno indiretto dei limiti tecnici delle altre squadre. Infatti allenatori vincenti come Liedholm (che aveva già vinto lo scudetto con il Milan, 1978-1979), e Capello (che aveva stravinto scudetti con Milan e Real Madrid) arrivano alla Roma che in quel momento era una delle più forti di sempre. Detta così sarebbe possibile vincere solo quando la Roma tornasse ad essere una delle squadre più forti. Eppure la Roma di Liedholm e di Capello è stata costruita con soldi e sapienza tecnica ma non con lungimiranza essendo morta una volta raggiunto il traguardo. Nel caso di Liedholm per limiti societari, nel caso di Capello per limiti economici derivati dal “passo più lungo della gamba”. Comunque la si pensi, raggiunto il massimo, non è stato possibile lavorare per consolidare e costruire una mentalità vincente. Mangiata la foglia, obtorto collo s’è fatto avanti il pensiero “uno scudetto della Roma vale dieci della Juve”, frase ad effetto, e infatti…

E’ pur vero che in un contesto prestazionale la mentalità vincente non si costruisce con la “poesia” ma con il potenziale economico che ormai sembra essere sempre più un limite insormontabile. Eppure ora ci sarebbero le condizioni; una proprietà economicamente potente, assennata, e un allenatore tra i più grandi di sempre che mai sarebbe approdato alla Roma senza una grande società alle spalle. Allenatore e società si garantiscono reciprocamente, ognuno qualità e quantità dell’altro. D’altronde come si dice, ci si frequenta tra simili. Ma non basta una grande società e un allenatore grande per fare subito grande la squadra. La squadra della Roma è ancora piccola e allora Mourinho deve lavorare per farla crescere. E per farlo deve essere assolutamente intransigente altrimenti i problemi non vengono a galla. Mourinho starebbe pertanto agendo nell’unico modo possibile: evitare di compensare le deficienze ma portarle il più possibile in evidenza.

C’è sconcerto, la critica sportiva è spiazzata, non capisce. Ma non può capire perché si pone solo in due modi, conflittuale o incensante, e in entrambi i casi in un’unica direzione, non analitica e sempre assertiva. L’affermazione “gioca male (asserzione) quindi sbaglia (conseguenza dell’asserzione)” è la somma di due non-fatti che, come si ritiene (erroneamente) per la “doppia negazione”, affermerebbero una realtà. Ma cosa significa giocare male? La domanda giusta non dovrebbe essere indipendente dal bene e dal male? E chiedersi invece perché gioca in quel modo? Ma per far questo l’analisi dovrebbe precedere la critica. Se non c’è analisi qualunque critica è lecita o non lecita poiché è supportata dal nulla. Si regge sul “per me è così”. E senza analisi la critica è negativa e facile perché sono sempre tanti i motivi per cui una cosa potrebbe essere sbagliata, mentre uno solo è quello per cui potrebbe essere giusta. È solo uno quello che vince e tanti quelli che perdono, e vale anche per le motivazioni. Ed è così che le deduzioni multiple appaiono fatti singoli. Un dado si avvita per un motivo, mentre tanti possono essere i motivi per cui non si avvita (ruggine, impanatura, incoerenza, cacciavite, ecc…), semplicemente perché ciò che è potrebbe non essere come ci appare. Perché banalmente  il dado è già avvitato e può solo svitarsi, perché pensiamo che debba girare in modo orario e invece la filettatura è opposta. E la facilità con cui si possa ritenere che se non si avvita è colpa dell’avvitatore, incapace di avvitare, è talmente banale da far apparire vera quella che è solo una mera ipotesi fattuale e non logica. Non capisco cosa fa e allora di sicuro sbaglia visto che non ottiene quello che dovrebbe ottenere secondo me.

Dietro il grande alibi; la Roma non farebbe più trapelare notizie, pertanto, non fornendo più informazioni, il giornalismo non saprebbe cosa scrivere e allora inventa. Eppure anche solo osservando si possono capire cose, ma ciò richiede una analisi che porterebbe automaticamente ad esporsi in proprio, allora meglio inventare. E l’invenzione che attira sempre è la notizia destabilizzante. Da qui l’informazione inventata e unidirezionalmente negativa, d’altronde se si perde sempre come potrebbe essere diversa. Terribilmente infantile (non enfant terrible).

Dovremmo invece sforzarci di pensare che Mourihno non sbagli per poterci chiedere altro, cosa stia cercando di fare, ma non per correttezza nei confronti del nostro “avvitatore” (altro mantra: non parlare male o bene per non fare il bene o il male della Roma), semplicemente per logica. Solo se escludi che l’altro stia sbagliando puoi capire cosa stia realmente facendo. Ed è nell’incapacità di applicare questa semplice relazione che si innesta la psicologia di gran parte del giornalismo nostrano (diversamente dal giornalismo anglosassone, molto più analitico e logico, o dichiaratamente scandalistico), unitamente ai propri lettori, ascoltatori, spettatori, specchio l’uno dell’altro (la reciprocità è tale da non capire più chi ha generato l’altro). E tutto perché non si vince! Perché chi non vince sbaglia, punto. Nemmeno nel paleolitico sragionavano così.

Si cavalcano mille possibilità di errore pur di non cercare il giusto che è uno. Tutto troppo facile per essere vero. In fondo la Roma non vince mai, sbaglia sempre, e quindi a parlare di errori ci si azzecca sempre. Ma è una ragione finta, di Pirro tanto è autolesionistica. Come dire che la pioggia è sempre un evento negativo, quando è soprattutto fonte di vita. Se continuiamo a dirci che il fuoco brucia non ci accorgeremo mai che non nuoce solo, ma cuoce anche. Mia nonna Francesca diceva <<come ti fai il letto ti ci addormi>>. E qui il letto ce lo facciamo in tanti e pure male. Ma non è colpa nostra, né del letto, né tantomeno del materasso che è quello che è. È solo quello che abbiamo e su quello dormiamo, ma non lo accettiamo. Preferiamo pensare che se dormiamo male non è colpa di come ci facciamo il letto, non è colpa nostra ma di qualcun altro. La Roma non si discute si ama, non esclude l’accettazione di quello che è realmente la Roma. E Mourinho, con il suo agire “senza rete”, ci sta sbattendo in faccia la vera Roma, lo fa per la squadra per capire che giocatori ha davvero sottomano, e indirettamente lo dice a noi che facciamo finta di non capire al punto da essere in tentazione di metterlo in discussione. Se cominciamo a metterlo in discussione significa “solo” che non vogliamo ragionare preferendo cercare il capro espiatorio pur di non accettare la Roma per quello che è. Solo accettando una persona per quello che è che la si può capire e quindi amare veramente. E vale sempre, per tutto e tutti.

Siamo troppo presi dal nostro modo di essere di sempre per accorgerci che quello che vediamo è quello che è. Non ci accorgiamo che Mourinho sta giocando a carte scoperte regalandoci una onestà sportiva che non abbiamo mai visto e pertanto non comprendiamo. Si passa dalla critica inespressa, soffocata, a quella aspra e smodata. Troppo raramente si effettuano analisi e/o si osserva quello che è. Tipicamente o si critica negativamente (siamo deboli quando si perde) o positivamente (siamo forti quando si vince). È solo la vincita ad indicare la direzione della valutazione facendola apparire una “analisi con-vincente”. Si valuta solo sulla base della forma e mai della sostanza. Sulla base di ciò che appare non di ciò che è. La vittoria fa apparire forti i giocatori, la perdita brocchi. Sembra paradossalmente che si remi per mantenere lo stato delle cose di sempre, per dimostrare inconsciamente che la Roma non è vincente e non lo sarà mai. A dimostrarlo ci sarebbe la sfortuna, il malocchio, gli arbitri, il potere, l’allenatore, la società, l’ambiente (tutte cose reali ma fuorvianti), ma quasi mai i giocatori (che non è un caso essendo l’unica parte a contatto diretto e indiretto con i tifosi che tendono quindi empaticamente a difenderli). Eppure non si tratta né di difendere né di attaccare, ma di accettare ciò che è, ma non per inedia, per defilarsi, per disaffezione, per indifferenza, ma semplicemente perché, si ribadisce, si ama solo ciò che conosciamo per quello che è, non per quello che vorremmo fosse.

Mourinho ha eliminato la critica negativa perché Lui è incriticabile, per dogma non per comprensione. Un passo avanti ma forzato, autoimposto per autocensura, non ragionato. Manca evidentemente il passo fondamentale, quello dell’analisi che porterebbe a capire Lui e tante altre cose. Strano modo il capire solo per criticare, e il censurarsi e per non analizzare. In psicanalisi si chiama rimozione dell’accettazione di sé.

Torniamo alla mancanza di analisi. Spesso commettiamo l’errore di applicare i nostri paradigmi a contesti e persone esterne a noi. Come dire che noi saremmo loro. È evidente che non sia così. Noi siamo noi e loro sono loro, e contano quanto noi (non come il Marchese del Grillo che impostava il rapporto in termini di potere quando qui il rapporto è fiduciario quindi necessariamente paritetico, benché sempre diverso). Se cerchiamo di pensare con la testa altrui potremo, forse, capire il concetto che l’altrui ha formulato, visto peraltro che è lui che sta agendo e non noi che stiamo solo osservando. Diversamente se ragioniamo con la nostra testa il pensiero altrui ci apparirà incomprensibile, o comprensibile solo quando coinciderà con il nostro. In sostanza capiremo l’altro solo quando questo sarà ridondante rispetto a noi. Un non senso logico, relazionale e intellettivo. Un abbaglio collettivo. Pura presunzione dettata da solipsistica autoreferenzialità. Quindi, quando non capiamo l’agire di qualcuno dovremmo escludere  tutto quanto ci porta a contestare quell’agire per il solo fatto che non lo stiamo capendo. Dovremmo procedere nel cercare elementi esterni al nostro ragionamento, alla nostra logica, a sostegno di quell’agire a noi tanto astruso. Daremmo così credito all’altro di agire per un motivo che evidentemente non può essere sbagliato ma giusto per come appare a lui. È tanto difficile?

E Mourihno è la cartina di tornasole di tutto questo perché non abbiamo mai avuto un allenatore tanto vincente che mettesse davvero in crisi il nostro paradigma sportivo dettato dalla necessità. E di fronte a tanto spessore o ti elevi o ti levi. O capiamo che abbiamo vinto pochissimo perché semplicemente ci è sempre mancato un soldo per fare una lira, e quel soldo metaforico si è presuntuosamente e umanamente sempre pensato che lo potesse mettere il tifoso allo stadio[1], e a volte ci è quasi riuscito. E i motivi esterni alla squadra in sé per giustificare le non vittorie si trovano sempre, fino ad arrivare all’esorcismo. La palla non è rotonda, la palla è una scienza esatta, altrimenti non vincerebbero sempre le stesse squadre. E la scienza dice una cosa: devi avere i giocatori più funzionali l’uno all’altro per fare la squadra più forte, non i più forti in assoluto semplicemente perché non esistono essendo la loro forza sempre funzione degli altri giocatori della squadra. Messi non ha fatto vincere l’Argentina, Cruijff non ha fatto vincere l’Olanda, Ronaldo non ha fatto vincere la Juventus, e così via. Giocando si potrebbe dire che il calcio sia la somma di almeno 11 variabili che corrispondono “solo” a 285,311,670,611 concatenazioni. Eppure si insegue sempre il giocatore e non la squadra. Eppure l’Italia ha vinto gli europei.

Quindi, la domanda è: quale può essere il motivo che porterebbe Mourinho ad agire vantaggiosamente sebbene ci appaia assurdamente contro la squadra e quindi addirittura contro sé stesso?

Non è certo semplice trovare la risposta se si tende a prendere in considerazione solo elementi a sostegno delle proprie tesi non comprendendo che la sostenibilità di una tesi dipende proprio dall’insostenibilità degli elementi contrari. In sostanza non si può prescindere dagli elementi svantaggiosi per comprendere quelli vantaggiosi che assumono valenze diverse solo attraverso l’analisi per contrapposizione.  Invece tipicamente si ha paura di frequentare “altri concetti” ritenuti avversi a priori non accorgendoci che è solo il pregiudizio a guidarci e non la ragione. Peraltro ciò che è a noi affine è per noi “già spiegato”, è pertanto pura ridondanza di sé che impedisce di vedere altro. Si rimane nel proprio orticello, che sarà anche giusto e bello, ma non lo sapremo mai se non valuteremo attentamente quello del vicino. Cosa osta? Ciò che conosciamo è già nostro, che senso ha riconfermarlo per ridondanza, quando avrebbe senso e utilità eventualmente riconfermarlo per diversità.

Ma è mai possibile che ancora non si capisca cosa sta facendo Mourinho? Mettendo insieme “progetto triennale”+”no-instant team”+”giocatori di carattere” emerge chiara la sua linea, ovvero stressare la squadra per metterla in crisi e far emergere subito e chiaramente tutti i problemi in modo da controreazionarli nel più breve tempo possibile. Se guardi lontano non ottimizzi il presente, lo porti al limite pensando in prospettiva.

Ancora oggi giornalismo e opinionismo continuano a ripetere che “da uno con il curriculum di Mourinho  ci si aspetta di più” non chiedendosi come mai proprio uno con quel curriculum “non dia di più”. Oppure il perché scarica sulla squadra invece di assumersi responsabilità. Lui si assume responsabilità proprio nel denunciare i limiti della squadra. È metodo il suo. Mourinho non vuole dare di più. E non per apportare danno o per incapacità, ma per apportare vantaggio nel futuro e non nell’immediato. Un vantaggio proiettato nel futuro è sempre a discapito del presente (la tipica politica nostrana ne sa qualcosa lavorando sempre per il presente e mai per il futuro e infatti l’Italia non avanza). 

Per capire questo operare dobbiamo prima comprendere il significato del tanto abusato termine “progetto”, termine mal applicato e quindi mal interpretato. Progetto significa capire le potenzialità di un “qualcosa” da progettare. E per capire le potenzialità è fondamentale passare per i limiti di quel qualcosa. I limiti rappresentano le caratteristiche su cui agire per capire come passare alle opportunità. Come dire che è necessario conoscere il negativo per poterlo trasformare in positivo. Altrimenti non riuscendo a comprendere i limiti di un qualcosa non si riesce nemmeno a spingere il qualcosa nella direzione voluta poiché quei limiti potrebbero essere tali da ostacolarne proprio la direzione stessa. In altri termini, Mourinho non sta facendo il Mourinho, ossia quello che eleva le caratteristiche positive dei giocatori portandoli oltre i limiti, sta, per ora, solo conoscendo i limiti della squadra che ha sempre saputo essere molti. E per farlo non può far altro che sperimentare lasciando i giocatori “liberi” di muoversi e promuoversi, mettendoli anche in crisi, in difficoltà, per capire se e come escono dalle difficoltà, per capire la loro reale capacità di autodeterminazione e problem solving. E perché fa questo per la prima volta nella sua carriera, o quantomeno in modo tanto palese e forte? Semplice, perché ha una squadra inferiore a quelle che ha sempre allenato. Deve pertanto pesarla, deve capirla in termini soprattutto caratteriali, deve comprendere, prima di dare ai giocatori maggiore convincimento, quali risorse ha dentro di sé la squadra tutta. Deve capire come i giocatori si applicano caratterialmente. E questo lo può capire solo se li lascia da soli in condizioni difficili. È il prezzo per selezionare giocatori vincenti, capaci di non mollare, che della difficoltà fanno la loro forza. Caratteristiche di tutti i giocatori delle squadre con-vincenti, da sempre. I giocatori non fanno la differenza sulla tecnica, tranne rari casi, la fanno sul carattere che è merce rara quanto quella della tecnica più sopraffina. E la Roma è arrivata spesso seconda, terza, oppure ha fatto ottimi piazzamenti, proprio perché i propri allenatori spremevano le capacità caratteriali dei propri giocatori facendoli rendere oltre i propri limiti e, al contempo, mascherandoli. E quando stai sempre sul limite alla fine crolli. Ed è stato così sempre, per Ranieri, Spalletti, Fonseca, Di Francesco, Zeman, Eriksson. Tutti loro possedevano ottime squadre ma tutte con qualche limite soprattutto caratteriale rispetto alle squadre vincenti. Venezia, Sampdoria, Lecce rappresentano l’esempio eclatante di quei crolli che più diffusamente hanno sempre caratterizzano il cammino della Roma. E quando la Roma ha vinto lo ha fatto perché aveva una squadra almeno pari a quelle tipicamente vincenti, e in quel caso sì, pubblico e allenatore hanno fatto la differenza. In altri termini la Roma, tranne rari casi, ha sempre reso al di sopra delle proprie possibilità grazie ad allenatori e pubblico. Ma da qualche anno la Roma è necessariamente sempre più “sé stessa”, sempre meno supportata dai propri tifosi (causa restrizioni da Covid) e oggi anche meno stimolata e controreazionata dal proprio allenatore, e guarda caso i suoi piazzamenti sono i peggiori degli ultimi 8 anni, 5a e 7a. E quest’anno, che il pubblico è meno che dimezzato e con un allenatore che non la “spreme”, mostra sé stessa forse come non mai, amaramente viaggiando al 7o posto. Citando Hans Christian Andersen (Novella “I vestiti nuovi dell’imperatore“, 1837) la Roma è nuda, necessariamente, e ne vediamo pregi e limiti, la vediamo per quello che è. E questa visione, ci piaccia o no, è la visione vera, senza artifici, senza orpelli, senza vestiti, senza alcuna forma a celarne la sostanza. E questa visione vera è quanto di più importante in quanto è quella da cui partire per giocare “realmente” e per essere più realisti del Re, ossia più romanisti della Roma. E’ necessario superare sé stessi, non per doppiarsi e andare in loop (quello che accade da sempre) ma per guardare avanti, oltre ciò che siamo, per poter andare verso ciò che dovremmo poter essere veramente. Non conta l’oggi, ma il possibile domani. Questo non significa che il risultato sarà automatico, ma è certo che se non ci si pone in questo modo il risultato non ci sarà mai, se non affidandoci all’eccezione che conferma la regola.

Analizzando i piazzamenti della Roma dal 1982 al 2018 si vede che, benché lievemente, l’andamento in campionato tenda sempre più verso l’alto classifica (vedi grafico), a dimostrazione del suo essere “eterna piazzata”. Ancor meglio l’andamento europeo dove infatti la Roma ha un ottimo ranking (11° posto a dicembre 2021) dimostrando ancor di più quanto appena espresso sulla debolezza “caratteriale”. Infatti in partita secca si riesce a mascherare maggiormente la discontinuità di rendimento in quanto è più facile stimolare il piano nervoso una tantum, diversamente dal campionato dove non è richiesta sporadicità ma continuità, e quindi assoluta stabilità caratteriale. Ma in entrambi i casi prima o poi il crollo arriva.

Ora Mourihno rispetto al suo standard ha una squadra nettamente inferiore per età, per disomogeneità, per economia, e non può far altro che agire da “anno zero”. Solo agendo così può selezionare giocatori a lui funzionali, solo mettendoli in difficoltà e/o lasciandoli liberi di esprimersi può vedere le loro reali capacità. È quello che è accaduto con Pellegrini che libero di muoversi ha evidenziato chiaramente tutto il suo miglior potenziale, per poi essere messo in condizioni non congeniali vedendo così, ob torto collo, la sua ottima capacità di problem solving. Mentre altri hanno mostrato le corde. Ecco, il punto è qui. Un rendimento inferiore, per stress, difficoltà o libertà, può fornire indicazioni fondamentali nel comprendere se l’atleta è adeguato o meno all’alta quota. In genere questo stress viene prodotto in allenamento, Mourino, che è un genio, lo produce anche in partita, nel contesto più veritiero.

Se l’obiettivo è vicecampione la Roma c’è sempre stata, se l’obiettivo è campione la Roma non c’è mai stata e quando ha vinto lo ha fatto o prendendo sportivamente in contropiede i più forti (con Liedholm), oppure facendo economicamente il passo più lungo della gamba (con Capello). 

La Roma è una squadra eterna seconda e in quanto tale stimola posizioni alterne e opposte. C’è chi ritiene che il bicchiere mezzo pieno sia una caratteristica tipica da accettare e pertanto mette in atto un atteggiamento comprensivo, tutt’altro che altezzoso. Per il fatto di non essere vincenti ma belli, puri, contro il sistema. Valori indiscutibili ma che non necessariamente rappresentano il dazio del non vincente. Altri vedono il mezzo bicchiere vuoto e si lamentano maturando e cronicizzando insoddisfazioni e, benché con atteggiamento opposto, il piglio è analogo al precedente e porta sempre in direzione dell’accettazione dell’essere perdenti ma belli, puri, contro il sistema. Una vittoria della Roma vale, appunto, mille della Juventus. Lecito, ci mancherebbe. Ma puoi essere vincente come la Juventus senza rinunciare alle tue caratteristiche “sportive”. Ma per esserlo devi scoprire ciò che sei, e poi accettarlo. E puoi essere ambizioso sempre, per quello che sei, avendo “reale” ragione di esserlo. Va quindi ribaltato il paradigma. Evitare di tirare in ballo la sfortuna, addirittura ritenuta caratteristica della Roma, o altre amenità che esistono ma sono solo appendici funzionali di chi è appunto “eterno secondo”, accettando, con la serenità dei coscienti di sé, e quindi dei forti a prescindere, che la Roma è sempre stata una squadra con ottimi e spesso bravi giocatori ma quasi mai ha avuto squadre paragonabili realmente a quelle vincenti. Se la Roma perde è quindi solo e solo per propri limiti. Ed è da sempre così. È da sempre che la Roma fa imprese incredibili, quindi oltre i propri limiti. Ma una squadra è vincente quando è convincente e non è costretta ad andare oltre i propri limiti. Una squadra è vincente quando ha ottimi giocatori funzionali tra loro e ottimi allenatori, e quando ha un ottimo pubblico, unica costante quest’ultima che la Roma ha sempre avuto e che in quanto valore aggiunto ha spesso permesso alla squadra di rendere oltre sé stessa. E questo pubblico, unitamente alla critica, che insieme fanno il cosiddetto “ambiente”, prima elegge e poi crocifigge perché pensa irrealisticamente di essere addirittura più forte della squadra, mentre è “solo” il vero plus valore se la squadra caratterialmente c’è, ma per esserci oltre l’occasionalità è necessario pensare in prospettiva e non, come sempre, al minuto. Non è la pressione né la depressione del tifo a portare su o giù la Roma, idea malsana che nasce dallo speculare sulla componente emotiva del tifoso da parte di chi non pensa alla Roma ma a giustificare “affari”. Ma è sempre stato così, tutti fanno affari con il calcio. Ma si cavalca la delusione del tifoso per accelerare continui cambi di allenatore che non servono alla squadra ma a non far mai capire quale sia il suo reale valore. Un allenatore che rimane si assume le proprie responsabilità fino in fondo, oppostamente un allenatore che se ne va al primo problema fa il gioco di una società che vuole “mascherare” i problemi non responsabilizzando mai il proprio condottiero. Ne escono puliti entrambi perché entrambi giocano sporco. E così il tifoso, deluso, può sperare solo nel colpo di fortuna, ma con i colpi di fortuna non si costruisce niente. Ora, per la prima volta in modo tanto netto, non ci sono equivoci, né fantasmi, né scommesse, la società è forte, l’allenatore anche, serve solo tempo, sempre che non ci strumentalizziamo da soli tanto siamo abituati ad esserlo.

A fra tre anni, non per vedere se abbiamo vinto, ma per vedere se siamo cresciuti in autorevolezza, se siamo diventati convincenti. Allora la vittoria diventa una conseguenza e non un’occasione. Se continuiamo a pensare “al minuto” la Roma non crescerà mai, faremo il gioco di chi specula, e sarà sempre una continua scommessa…

Marco Valerio Masci

Foto di testa: Marco Valerio Masci, “ROMA”, fotografia digitale (Panasonic DMC-TZ3), ‎‎17 ‎Agosto ‎2008, Roma.


[1] Ennesima querelle irrazionale, l’unica differenza tra chi va lo stadio e chi vede la partita alla tv non è l’amore per la Roma ma la possibilità di contribuire concretamente al morale della squadra

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