L’AFFLATO  DI  ISHAM

L’AFFLATO  DI  ISHAM

(1997[1])

 

Mark Isham frequenta le auree distese del Jazz scandinavo dei primi anni ’70 con il quartetto di Art Lande (con il quale inizierà l’avventura discografica: “Rubisa Patrol”- 1976). La sua storia musicale è strettamente legata e calibrata sulle capacità tattili di alcuni fedelissimi e poliedrici musicisti nella persona di Peter Maunu, Patrick O’Hearn e Terry Bozzio su tutti, con i quali vive e convive strumentalmente l’intero percorso narrativo, sin dai tempi del “Group 87” fondato nel ’78, iniziando una ininterrotta collaborazione circolare, fatta di un continuo e partecipativo interscambio, per una sorta  di transfert itinerante e stanziale, motore del divenire di tutte le loro esperienze creative (individuali e di gruppo).

P.Maunu, chitarrista senza frontiere, “classico-estetico”, già spaziava nel Jazz meditativo di Charles Lloyd e nella Fusion-Jazz/Rock virtuosistica di Billy Cobham e Jean Luc Ponty ; T. Bozzio, batterista polifonico, e P.O’Hearn, bassista setoso, già costituivano la sezione ritmica “folle” di Frank Zappa! Tutti e tre sono il corpo Isham e tessono  i mille fili di una tela ritmica intrigante, con  maglie di diverse grandezze e spessori dove accogliere e liberare il disincanto della Tromba di Isham, ora languida e lasciva, ora digitale e multisonica, ora delicatamente Davisiana, ora limpida e classica sulla eco dei concerti per tromba di Georg Philipp Telemann (1681-1767). La musica di Isham è sovente su struttura modale e su base tonale circoscritta, quindi risente molto della qualità del tessuto sul quale innestarsi. L’ampia capacità, o meglio, la possibilità di aprire ed arricchire le evoluzioni della ‘piccola’ narrazione modale dall’interno, da parte dei musicisti, è fondamentale. Non che una musica a più variazioni, ‘melodica’, non necessiti di qualità strumentali, ma l’ampliamento degli elementi narrativi in gioco, può venire incontro ai ‘limiti’ di espressione tecnica, spostando l’attenzione sulle suggestioni della melodia. L’approccio modale è sicuramente il più istintivo ma è anche il più difficile da elevare. Quando la struttura si ripete, l’arrangiamento e l’arricchimento delle minime variazioni all’interno possono, se tecnicamente creative, liberare l’evento musicale distanziandolo, per crescendi e articolazioni (anche virtuosistiche, purché contestualizzate) dall’elementarità della composizione di base. Le componenti in gioco tra modale e ‘melodico’ sono le stesse ma con differenti intensità critiche; è sempre musica, il linguaggio globale è lo stesso, cambiano solo le percentuali di relazione. Il problema non è qualitativo, rientra nell’ambito della semplificazione di una componente per esaltare l’articolato dell’altra. E’ una sorta di contrappasso ideale, ma non è legge, che pone le sue basi all’interno della musica di confine, tra la “spot-music” di Frank Zappa e la “Blob-music” di John Zorn, stupendi e rari esempi di virtuosismo melodico contestualizzato, ‘contro’ l’estremismo magico e essenziale di Brian Eno. In questo senso sta la grandezza dei musicisti che ruotano intorno ad Isham (molti già grandi con Zappa sulla sponda opposta!).

La sua prima escursione discografica in “solitaria” arriva con “Vapor Drawings”(1983) dove distende la sua tromba sulle profonde movenze del synth per un articolato elettronico-ritmico, matematico e un po’ retrò (tipico nella seconda metà degli anni ’70 e qui sostenuto da Peter Van Hooke alle percussioni elettroniche), che ne limitava già all’epoca la possibilità di un rilancio temporale. E’ pur vero che l’operazione, nel  cercare di far dialogare ‘classico’ e ‘moderno’, doveva dapprima, definire il possibile dato iconografico individuale capace di dare vita a questo binomio, e poi , attraverso la rilettura del dato acustico /elettronico, promuovere in senso compiuto e credibile il progetto. Quindi, i contorni certi, iconografici, del ‘moderno elettronico’, dovevano essere per forza individuati in quelli di qualche anno prima. La vera innovazione era lui, Isham, e la sua capacità  delicatamente trasformista.

Oggi una simile compressione linguistica si riscopre stentorea e datata nelle movenze di alcuni brani, dalle memorie Jazz di ‘many chinas’, ai frammenti alla Jarre di ‘raffles rio’ e di ‘men before the mirror’, fino all’ingenua marcetta ‘Mr. Moto’s penguin. Oggi, sotto l’egida asettica e implacabile del tempo, per trapasso modarolo, emergono dalle polveri, i brani meno ritmico-modali e seriali. L’onda epocale di ritorno riconferma da un lato il citazionismo epico (emotivamente sempre valido) di ‘on the threshold of liberty’ scoprendone il riferimento archetipo-espressivo da ‘momenti di gloria’(Vangelis, 1981)e dall’altro il piccolo piano di ‘when things dream’ e il tema a carillon di ‘something nice for my dog’, meno referenti e collocabili, come piccole gocce cinesi, avvicinano le “distanze blue” dell’ultimo brano più naturali e consonanti all’estensione fluida e romantica della sua tromba.

Marco Valerio Masci, Mark Isham OTTOL, 1987, 24×17 cm
Tecnica: rothring 0.4 su carta
Note: disegno per “On The Threshold Of Liberty” (Vapor Drawings, Mark Isham, 1983; Composed By Mark Isham / Percussion [Electronic], Snare [Snare Drum] Peter Van Hooke / Synthesizer, Trumpet, Flugelhorn, Piano, Saxophone, Percussion [Electronic] Mark Isham).
La sua è una tromba pulita e classica per uno stile di emissione colto, lievemente trasgressivo e camaleontico. ‘Mr. moto’s penguin’ svela il primo arcano tematico e d’emissione, in transito tra bandismo rinascimentale e barocco, ritagliato su un esteso ritmico gradevolmente rivisitato. E’ una tromba che si ritaglia uno spazio tutto suo e si staglia sullo sfondo, tra Telemann e Davis, proponendosi, per edulcorazione, come uno dei momenti più alti del ‘soffio’ mondiale. Il parco strumenti di Isham è ampio e variegato: Tromba, Flicorno, piccola Tromba, Sax Soprano,  Steiner Evi, Piano, Tastiere Elettroniche (digitali e analogiche), sintetizzatori e percussioni.

Nel 1986 esce “Trouble mind”, intrigante e bella esperienza con ‘l’itinerante’ Marianne Faithfull (della quale segnalo l’interpretativo “Strange weather” con B. Frisell-1987)

In “We Begin”(’87) torna, con Art Lande al piano, all’evento naturalistico (in senso espressivo, non materico) senza cercare la stasi tematica, rilanciando gli ampi spazi di una lontana eco sinfonica e orchestrale. Il gioco è quello di un concerto da camera senza confini. E’ l’omaggio alla lunga collaborazione con Lande, nel segno di uno scambio reciproco di esperienze e sensazioni affini. La suggestiva fotografia in copertina è il dato figurato di questo percorso narrativo. Il surreale ed esile recinto trasparente, aperto sul diamante di un campo da baseball, è il semplice traslato figurato e simbolico della matrice musicale regolare (modale), in continuo frazionamento modulare, dal grande (struttura del recinto) al piccolo (maglie della rete) attraverso la quale, vedere, ancora una volta, la grandezza infinita dello scenario di fondo, tra cielo e terra, per scorgere all’orizzonte un trenino di case basse come ‘piccolo’ segno di presenza vitale in distensione . La foto è il ‘logotipo’ del modo musicale scelto, ritmico dal recinto al trenino (Lande), melodico dall’infinito alla vita (Isham). Nel primo brano, ‘the melancholy of departure’, Isham aleggia sulla struttura modale ritmica (una sorta di cavalcata sfrenata) cercando, per contrapposizione, la quiete delle ‘lande’ desolate. Nella magica “ceremony in starlight”, il piano di Lande apre piccole luci puntuali, distanti e vicine come stelle tra gli articolati spazi dell’infinito. E’ transfert tra pentagramma e volta celeste, cercando di leggere e lambire, per piccole intensificazioni, i  confini della via lattea. L’itinerante vagare di Isham è perfettamente a suo agio nel cercare di congiungere quei punti, per un figurato musicale fatto di allegoriche costellazioni. Il repetituum è piacevole, dilatato e lievemente sostenuto da tocchi pianistici eleganti e afflati contenuti, in continuo gioco circolare.

Il minimalismo (ripetizione per piccole differenze) ritmico è il tappeto sul quale Isham ama viaggiare, e Lande (che ne abbraccia la sintassi) è sicuramente uno dei più grandi e sensibili poeti in grado di manipolarne e trasformarne il linguaggio, se pensato per un minimalismo da camera. In ‘surface and symbol’ l’interscambio tra estensione melodica e frammentazione ritmica è coerente e completo.

Questo periodo, ad un riascolto odierno, contemporaneo, vede ribaltate le sue determinanti, evidenziando gli aspetti elettronico-decadenti di quel periodo (fine ’80), per lasciare il passo a quelle composizioni, forse meno evidenti, ma forti di tante piccole particelle embrionali, fertilizzate, oggi, dall’incontro con il musicale contemporaneo.

Nello stesso anno di “We Begin” esce uno dei più particolari dischi dell’ECM, vero e proprio evento musicale rimasto isolato e per certi versi irripetibile: “Cloud About Mercury” di David Torn. E’ uno di quegli episodi (puntuali nel rimescolio continuo delle infinite carte  musicali) che concorreranno, insieme ad altri, a liberare la prossima “grande musica” attraverso le radici del Jazz e del Rock (chissà come si chiamerà la nuova musica…). Il disco vede la coppia Torn, Isham e Bruford, Levin (schierati tutti in prima fila) esaltarsi attraverso contrasti timbrici e affinità elettive. Bill Bruford e Tony Levin portano il geniale bagaglio ritmico maturato dalla lunga esperienza con i King Crimson. Torn e Isham muovono la loro azione su due piani  differenti per intensità e espressione. L’uno in tensione continua, elettrica e devastante (Torn), l’altro in fluidificante naturalezza di confine (Isham). Gli articolati calanti della chitarra elettrica di Torn sono il contraltare di Isham. Non c’è un esaltazione unica nel ‘canto’; il loro è un dialogare per contrasti e stereofonie assonanti e dissonanti (mai sovrastanti le monotonie tematiche), tra simbiosi e distacco. Entrambi fanno Jazz, Rock, e contemporanea da camera, per un risultato “fuori dal tempo” tenuto insieme dalla genialità della sezione ritmica. Il risultato corale a Quattro non è mai in flessione creativa e intellettuale. Sono passati 10 anni da quell’evento e non avrebbe senso cercarne la ripetibilità. Certi episodi, per loro natura devono dare talmente tanto e comunicare tant’altro, da non avere ancora la forza di essere codificati. Vivono di luce propria e influenzano l’intorno per decodificazione .Non hanno la forza di evolvere perché sono già il massimo di quell’evoluzione temporale, sono episodi per l’appunto! Trame elettroniche  per nuove sonorità, mai kitsch e replicanti acustiche, sottendono le abilità amanuensi dei quattro in tutta l’opera. Inizia con ‘suyafhu skin…’ e finisce con ‘…suyafhu seal’, due piccole appendici senza voler essere né capo né coda del racconto, né ouverture né gran finale, per aprire senza iniziare nulla e chiudere senza finire niente. Due piccole estremità identiche che si guardano, speculari, nel tentativo di riagganciare in circolo il corpo nuovo (le cui fattezze appaiono strane). E’ l’evento che si circoscrive, senza soluzione di continuità, negandosi inconsciamente la possibilità di continuare. E’ condizione emblematica di una taumaturgica necessità di protezione, labile e timida come un soffio, che velatamente cerca di contenere le straripanti movenze di quel corpo. Le appendici sono anche più semplicemente un invito al riascolto di un qualcosa che, ad ogni messa a fuoco, si trasforma in nuove geometrie rivelando le forti proprietà caleidoscopiche degli arrangiamenti.

La luce ‘classica’ e l’indole elegante di Isham e le trasgressioni progressive (tra Fripp e Frisell) di Torn si corrompono a vicenda, in un momento ‘centrale’ dell’album, al giro di boa del racconto, nel primo brano del lato B “previous man”(cofirmato da tutti e quattro), per un esteso narrativo in totale coinvolgimento di gruppo.

L’anno dopo nasce “Castalia” che è una sorgente del monte Parnaso in Grecia, consacrata ad Apollo e alle Muse come fonte nascente dell’ispirazione. Ai consueti compagni di viaggio, peraltro in splendida forma, aggiunge il vigore di Torn, leggermente edulcorato e spesso sullo sfondo, e la limpidezza di Paul McCandless al clarinetto (chiamato a rafforzare il dato estetico nei due brani orchestrali “ tales from the maiden” e “a dream of three acrobats”).

Sono gli opposti, gli estremi di base del triangolo cromatico, attorno al quale ruotare l’intera orchestra e al cui vertice alto porre la propria tromba. Il piano su cui è posato il triangolo ruota, in funzione dei diversi punti di vista orchestrali di Isham, deformandolo progressivamente in una retta, portando quindi la sua tromba dal vertice del canto (alto) ad allinearsi sullo stesso piano del clarinetto e della chitarra.

E’ l’Isham che più piace, astratto e concreto, esteta e materico, pronto ad accogliere la sensualità setosa del basso di P.O’Hearn nella splendida accelerazione e decelerazione di ‘meeting with the parabolist’, sostenuta dall’articolato più tipico di T.Bozzio. La marcetta di apertura  di ‘gran parade’, scanzonata e gioiosa è la gradevole introduzione di un progetto coerente che brilla per freschezza e trasparenza. E’ un compendio emozionale, dalle arie jazzate di ‘tales from the maiden’ alla sognante, lampeggiante e volteggiante ‘a dream of three acrobats’ per finire sul ricordo epico di ‘gracious core’.

Nel ’89 arriva, affilato come una lama, “Stiletto”, del batterista Michael Shrieve (solo a nominarlo è un tuffo nel cuore, in quel di Woodstock, con Santana, nel ricordare il suo assolo, uno dei più belli della storia del Rock), con Isham, Torn, l’atmosferico e essenziale Andy Summers e Terje Gewelt al basso, mago del contrappunto. Album tagliente, vicino per intensità espressiva  a “Cloud about mercury” nel primo brano ‘scratch’, ma fluidificato oltre, da sezione ritmica più avvolgente, morbida e leggera. La tromba di Isham è la lama scintillante sui piatti di Shrieve, sugli arpeggi e i legati di raccordo di Summer, in gioco continuo con la personalità ‘atimbrica’ di Torn. Il suo è il canto acustico limpido che si presta ad essere anche squarciante quando Torn lo porta per mano dentro la devastazione del suo assolo in ‘stiletto’; iterativa ballata circolare piena di tensione in continua apertura. La travolgente ‘las vegas tango’ di Gil Evans, con il tema calante sulle leggere dissonanze tra tromba e chitarra, sottolinea ancora quali possibilità espressivo-timbriche esprima il loro dialogo. In ‘four winds’ Isham esprime tutta la sua sapienza acustica.

Nel frattempo la sua grande capacità narrativa lo aveva avvicinato alla musica da film come luogo dove riscoprire situazioni Jazz classiche e d’avanguardia (tra suoni lontani e davisiani) o rilanciare le sue esperienze discografiche in chiave più ‘fusion’ come in “Love at large”(1990). Sono esperienze chiaramente in andamento fotogrammetrico che comunque ampliano il suo bagaglio possibile.

Nel disco omonimo, “Mark Isham”(1990), c’è il tentativo, riuscito, di raccontarsi in tutte le sue forme, dal mondo della canzone con la setosa e calda voce di Tanita Tikaram in ‘i never will know e in ‘blue moon’ con un composto Patitucci al basso e il felice ritorno di Peter Van Hooke alla batteria, alla ‘autocelebrativa’ “marionette” affluente di castalia, seguita da ‘an eye on the world’ con Torn e Alex Acuna in evidenza. Nel gioco delle grandi partecipazioni trova anche il tempo per un istantanea sulla trasparenza acustica del piano di Chick Corea in ‘ashes and diamonds’. “Mark Isham” è una sorta d’antologia d’intenti, buon viatico e possibile biglietto di presentazione per chi volesse entrare in contatto immediato con la sua musica . Tenendo ben presente i limiti di un viaggio fatto di soste brevi; Isham infatti ha bisogno di distendersi, di sostare a lungo in un luogo (castalia), per rilanciare quel senso di movimento circolare, allargando sempre più l’orizzonte creativo, mantenendo stanziale la sola presenza fisica.

Le conoscenze musicali in continuo e vorticoso interscambio partecipativo lo portano da Andy Summers in “Charming snakes”. Disco straripante di celebrità coinvolte (da Chad Wakermann a Ed Mann, le sezioni ritmiche zappiane imperversano nelle sue esperienze, da Herbie Hancock a Bill Evans…) e di elegante semplicità compositiva. La tromba di Isham affianca il tema con Summers in ‘Rainmaker’ lanciando con classe il ‘naturale’ assolo di Bill Evans. In ‘michey goes’ la sua partecipazione è totale scartando sull’assolo ‘pink’ di Summers. Isham ritaglia spazi swing nel Jazz-Rock progressivo di ‘monk gets ripped’ soffiando, poi, calorosamente sulla distesa Jazz-Rock di ‘easy on the ice’. E’ una partecipazione in fusione semplice e contributiva sulla antivirtuosistica chitarra di Summers.

Nel 1991 arriva, con “Songs my Children Taught me”, la possibilità di esprimere il suo aspetto più classico e filologico, tra rinascimentale e barocco, tra oriente e occidente, per una tromba alla Telemann, netta e limpida. Il progetto era stato concepito per musicare in chiave “moderna” quattro racconti per bambini ( quattro suite). ‘The stead fast tin soldier’ (7 movimenti) è un campionario di marcette rinascimentali . ‘The emperor and nightingale’ (8 movimenti) si pone tra oriente e occidente, con un misurato Bill Douglas all’african flute (già in Tibet), tra cineserie e kilt scozzesi. Qui Isham lascia la tromba tessendo larghe ali al sintetizzate sulle evoluzioni ritmiche di Kurt Wortmann per liberare il canto del flauto. Nella fiaba ‘thumbelina’ si respira la naturalezza del basso di Charlie Haden (double bass) sulle scie calde dell’oboe di McCandless. ‘The emperor’s new clothes’ ritorna al bandismo con chiari riferimenti militari, tra Beethoven ( la Battaglia di Wellington) e Ciaikoski (Ouverture solenelle ‘1812’).

L’augurio che si può fare a Isham è quello di ampliare le sue possibilità di contaminazione, aumentando le collaborazioni con nuovi musicisti, per scatenare quella certa tendenza al monoteismo di quel suo fraseggio, tanto particolare e identificativo da risultare, alla fine di questo periodo, a volte, ridondante e automatizzato,  privato della spontaneità e dell’istintività. La ricerca itinerante e’ l’unica via per rilanciare il linguaggio prima che diventi balbuziente e poi cronico. E’ un po’ quello che sta succedendo a Garbarek, troppo ripiegato su se stesso e sulle genialità di “I took up the runes”. Sempre che abbia la voglia di mettersi in discussione cosciente e che io, soprattutto, abbia ragione della critica. Il dubbio c’è e lo spiego. E’ l’estremizzazione della scoperta, nel momento più alto, che, riproposta in tutte le sue possibili configurazioni, si esautora e indispone all’ascolto? Oppure è giusto che un artista la frequenti in tutte le forme per capirne le massime possibilità e i contenuti più profondi per poi sorpassarla e rinnovarsi?! Oppure è la scoperta di un momento troppo alto, pieno di personalità, troppo carico di innovazione e significati, da essere, per sua natura, ridondante e impossibile nella ripetizione in qualunque forma lo si presenti? Eppure, anche qui, l’uomo (prima ancora che il musicista) non può far altro che perseverare per capire, dando tempo al tempo! Isham per ora si è preso un momento di riflessione navigando nelle materne e protettive aree del grande Jazz con “Blue sun” (1995). Operazioni simili le aveva già espresse nell’ambito cinematografico, ma qui non è chiaramente subordinato ad alcun dato filologico-visivo. E’ il vero Jazz di Isham senza alcuna eco dei fraseggi già frequentati dove prevale la necessità di farsi classico per nuove ispirazioni. L’eleganza della sua tromba si sperimenta su un cast di prim’ordine: Dog Lunn (basso elettrico), Steve Tavaglione (sax tenore), Kurt Wortman (batteria) e David Goldblatt (piano). C’è uno splendido omaggio a Miles Davis dal titolo emotivo ‘and Miles to go…before he sleeps’…ci sono molte miglia da fare…prima che la ‘musica di Miles’ dorma! Elegantissima e dilatata la reinterpretazione personale di ‘in a sentimental mood’. Davis aleggia volutamente in tutte le composizioni, ma l’ultimo brano, ‘tour de chance’, è augurio e autoinvito per nuovi itinerari musicali.

 

Marco Valerio Masci

 

 

DISCOGRAFIA

Art Lande “Rubisa patrol”, ECM, 1976

Art Lande “Desert marauders”, ECM, 1978

Art Lande “Story of ba-ku”, 1750 Arch, 1979

“Vapor drawings”, Windham Hill, 1983

“Film music”, Windham Hill, 1985, colonna sonora

“Trouble in mind” con M. Faithfull, Island, 1986

“We begin” con Art Lande, ECM, 1987

David Torn “Cloud about Mercury”, ECM, 1987

“Steadfast tin soldier”, Windham Hill, 1987

“Castalia”, Virgin, 1988

“The moderns”, Virgin, 1988 colonna sonora

“Beast”, A & M, 1988 colonna sonora

Michael Shrieve “Stiletto”, BMG, 1989

“Tibet”, Windham Hill, 1989

“Love at large”, Virgin, 1990 colonna sonora

“Mark Isham”, Virgin, 1990

Andy Summers “Charming snakes”, Private music, 1990

“Songs my children tought me”, Windham Hill, 1991

“Cool world”, Varese Sarabande 5374 colonna sonora

“A river runs through it”, Milan, 1992 colonna sonora

“Romeo is bleeding”, Verve, 199# colonna sonora

“Quiz show”, Hollywood, 1995 colonna sonora

“Blue sun”, Columbia, 1995

 

Foto di copertina: Marco Valerio Masci, L’afflato di Isham, 2008, tecnica: foto digitale (Panasonic TZ3)

[1] Pubblicato nel 1997 su Grande Musica New Age, 1998, GRUPPO EDITORIALE FUTURA S.r.l.

 

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