Luna o Luno

Luna o Luno

Riflessioni sulle attribuzioni di genere declinate al femminile

In un mondo che da importanza alla forma (termini) e non alla sostanza (contenuti), la forma diventa spesso l’alibi per la sostanza più becera. Didatticamente e professionalmente ho sempre dato prevalenza alla sostanza[1] in quanto capace di determinare la forma correlata, mentre spesso si procede al contrario commettendo un errore dialogico dagli effetti spesso irreversibili e gravi. Ciò non significa che non si possa partire dalla forma, significa che qualunque sia il processo elaborativo si dovrà sempre trovare corrispondenza tra forma e sostanza (funzione). Formalismo e funzionalismo fini a sé stessi sono facili, complesso e appagante è coniugarli. Proceduralmente è importante darsi regole, poiché partire dalla forma inevitabilmente fa perdere di vista la sostanza intesa come finalità e di conseguenza come contenuto; ossia la forma intesa come input condiziona la sostanza che potrà risultare non correlata alla prima. E questo linguisticamente è un problema serio che appunto si riversa sui contenuti agevolandone derive equivoche e non correlate, quindi sdrucciole o addirittura prive di senso (quando si punta la forma scambiandola ad esempio per “estetica”). Pertanto nell’utilizzo dei termini si commetterebbe lo stesso errore con conseguenze ancora più dirette[2].

O/A

Entriamo nel merito della questione “letteraria”, scritturale e verbale. Estremizziamo il concetto espresso più sopra. Esprimere rispetto lessicale attraverso i contenuti (sostanza) significa potersi permettere di non correlare i contenuti alla forma in quanto questa potrà anche essere determinata da fattori “solamente” estetici (non correlati al contenuto). Mi rendo conto che ciò possa apparire “solo” strategia e in parte lo è. Questo approccio/modalità nasce dall’aver riscontrato, in anni di insegnamento e di vita[3] quanto sia controproducente puntare l’attenzione sulla “forma” perché è in sé un modo per dare forza all’ipocrisia spesso cavalcata inconsciamente da chi, appunto, punta la “forma” come elemento portante di una trasformazione sociale. È ciò che accade da sempre, mi limito a citare Pasolini per ricordare di cosa sia capace l’ipocrisia, sociale o politica che sia.

Dare correlazione alla sostanza modificando poi la forma è sempre possibile e auspicabile, ma potrebbe non accadere per tanti motivi. Introduco un elemento di considerazione “tecnico-sensoriale”; allo stesso modo di come inizialmente ci appare cacofonico un termine nuovo, anche il cambio di desinenza può determinare una cacofonia iniziale che, con il tempo, si trasformerà poi, per assimilazione, in eufonia. È naturale assestamento fonetico esperienziale. E pure il “neutro” ha un valore, forse anche più grande del “genere” in un mondo che vive di suddivisioni. Può quindi un genere, mai figlio di una pur pallida “oggettività linguistica” (a meno che questa non venga ricondotta a logiche matematiche con tutte le restrizioni del caso), essere determinato da visioni particolari ed eccezionali come è giusto e naturale che sia? Ripeto e sottolineo, “naturale” proprio in luogo di diversità ed eccezionalità. Che senso ha “suddividere” e irreggimentare quando si parla di “parità delle opportunità”? Non viene il dubbio che forse il “neutro” agevolerebbe questa parità mentre l’attribuzione di genere la contrasterebbe proprio evidenziando una differenziazione e dando forza, torno al punto, all’ipocrisia che vuole darti la “pillolina” per curare il sintomo e non il male? Arriveremo a mammo e papò? Oppure prevarrà “genitori”? E in tutto questo, come si pone l’eufonia intesa semplicemente come estetica fonetica? Esiste un’estetica? Assolutamente si, proprio per dare senso al rapporto tra forma e sostanza.

Che il linguaggio si trasformi è naturale e desiderabile, ma non per “ideologia” poiché questo significherebbe, oltre a quanto già detto sul rapporto forma/sostanza, dare vita breve alla trasformazione, legando il termine ad una pulsione epocale e non realmente sociale. Poi, detto questo, che avanzi il dibattito, perché solo da questo si potrà arrivare a qualcosa di realmente sensato in ragione di una sedimentazione. Infatti alcuni termini godono di sedimentazioni maggiori in ragione di ruoli professionali già trasversali da tempo, come nel caso di “direttore/direttrice” associato alla Scuola, ruolo diffusamente ricoperto da entrambi i sessi, e affiancato da Prèside che è sia maschile che femminile. Mentre in ambito musicale orchestrale la direzione femminile è stata estremamente sporadica (le italiane di rilievo ad oggi sono circa una decina su circa 400) e “direttrice” apparrebbe sminuente benché risponda ad una regola grammaticale ben precisa dove il suffisso “tore” (diret-tore) non vuole il suffisso “tora” (questo spiegherebbe tecnicamente anche la cacofonia esperienziale di direttora che peraltro fa pendant con medica). Certo, le regole si possono cambiare, ma nel rispetto del rapporto forma/sostanza dove quest’ultima rischia di perdere la propria natura qualora si sposasse con strumentale. E per estensione, giocando sui cortocircuiti dialettici che rimandano alla letteratura di Bergonzoni, potremmo chiederci, il “suono” è maschile? E la “luna” perché è femminile? Insomma, il rischio di cercare un senso e arrivare al non-senso è davvero grande al limite del demenziale.

La desinenza femminile in “a” mira sottilmente ad una dialettica assoluta sottesa dall’idea di “perfezione”. Una sorta di “a” ariana, retaggio di quella lunga eco dell’ego umana che cerca di condurre a sé la natura invece di condurvi sé stessa. L’idea della perfezione assoluta è quanto di più pericoloso, e qualunque sia il movente sarà sempre e solo un alibi.

La “diversità” come valore sociale avverrà con l’ampliamento della trasparenza. Internet aumenterà il livello di percezione della diversità che passerà progressivamente da locale a mondiale. L’allargamento di pensieri, usi e costumi, incrementerà l’indice di “trasparenza sociale”, che ora, per differenza con la persistente percezione analogica, locale, appare amplificata mentre è solo diffusamente visualizzata. Si potrebbe pensare che l’uomo di oggi commetta più errori poiché ne vede di più, in realtà, fatta la tara dell’emulazione, l’uomo è “orribile” come sempre, e che lo fosse o non lo fosse solo nel nostro circondario “analogico” era solo mera proiezione, speranza, derivante dal ristretto contesto insediativo/percettivo. Internet porterà tali e tante “alterità” che nel tempo sedimenteranno trasformandosi in conoscenza ampliando la percezione e quindi l’assimilazione della diversità come collante sociale inalienabile. Passare da un mondo a due colori ad uno policromo non sarà un processo esperienziale indolore e durerà tanto quanto la resistenza del prima sul dopo. E chi vede il femminile nella desinenza in “a” ragiona ancora con i paradigmi del mondo analogico.

Sappiamo che i paradigmi verticali in luogo della vita sono implicitamente errori (il paradigma funziona in ambito matematico dove regole e variabili sono evidentemente circoscritte), quindi l’unica regola giusta è quella della flessibilità per cui la desinenza al “femminile” potrebbe andare bene in alcuni casi e in altri no, e questo proprio a dimostrazione di una dipendenza indipendente (scusate il gioco di parole) dell’estetica dalla forma e dalla sostanza, dove queste si reggono per reciprocità anche e appunto nel rispetto dell’estetica stessa (qui fonetica). In altri termini, per insegnare cosa sia l’estetica ho sempre dovuto far capire cosa fosse forma e sostanza. In pratica l’estetica non l’ho mai insegnata verticalmente essendo questa diretta derivazione di forma e sostanza. In questa imposizione di “direzione” tutto ha sempre trovato senso linguistico (visivo, acustico o letterale che fosse). E allora, in questo turbinio di ragionamenti, torna ancora più forte l’importanza della sostanza che dovrà poter risultare ancora più convincente anche in convivenza con una forma pur non corretta riuscendo a far apparire quest’ultima figlia solo e solo di un’estetica fonetica, che, sia chiaro, ha tutta la ragione e il dovere di esistere. Quindi “la medica mi medica” potrebbe essere ritenuto insostenibile. Oppure, per estensione, sarebbe più giusto “medichessa” derivato da “professoressa”? Quindi, si capisce la liceità di “medico” anche al femminile se si comprende il senso sostanziale e formale del concetto di “professione” (che è pure femminile). Altrimenti si cade nell’estetica fine a sé stessa e non, invece, risultante di sostanza e forma, e questo porta a derive logiche che, allora sì, si riversano sul contenuto stravolgendolo.

Aggiungiamo anche che la questione non è certo internazionale essendo strettamente connessa alle caratteristiche di ogni lingua, aspetto che rende, non solo locale la questione, ma dimostra come la linguistica non sia affatto correlata agli aspetti culturali essendo la questione del maschilismo presente nelle culture indipendentemente appunto dalle caratteristiche linguistiche, a dimostrazione di come associare un senso diretto ad un fonema sia operazione spericolata, giornalistica, antiquata e metricamente ideologica.

Marco Valerio Masci

Foto di testa: Marco Valerio Masci, “Luna o Solriflesso”, fotografia analogica (Canon Prima Super 120), ‎gennaio ‎2001, Maldive.


[1] benché si creda che la materia di Percezione e Comunicazione Visiva, che ho insegnato per 8 anni e mezzo parallelamente a 10 anni di Acustica (materie per me da sempre anche professionali), sia “studio della forma”.

[2] il concetto in modo tanto netto vale in ambito strettamente linguistico, mentre in ambito progettuale e/o artistico la questione è più articolata.

[3] nei primi anni ’70 partecipavo alle manifestazioni femministe con mia madre oltre ad avere vissuto direttamente gli effetti deleteri del peggior maschilismo.

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