Måneskin = Rock

Måneskin = Rock

La critica musicale titola unanime <<con la vittoria di Sanremo i Måneskin sdoganano il rock in Italia>>. Un riconoscimento importante che in realtà non gli appartiene, almeno si spera per loro.

Il Rock dei Måneskin (Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi, Ethan Torchio) è “radicale”, è il rock suonato, quello dei riff, dell’inciso vocale, dello strumento nudo e crudo, quello dei capostipiti Led Zeppelin e dei Nirvana, ultimi esponenti e canto del cigno del Rock. Oggi i Måneskin  portano il Rock in Italia, dove, secondo gran parte della critica musicale nostrana, non sarebbe mai esistito. Se per Rock intendiamo quel modo “radicale” in Italia c’è stato ben poco, forse nulla. La corrente classica e letteraria sono da sempre interne al nostro modo di fare musica e hanno prodotto due fronti, il rock “articolato”, AREA, PFM, BANCO, NEW TROLLS, PERIGEO, e il rock “sintetico”, CCCP, SKIANTOS, ILLOGICO e LA CRUS. Rock “progressive” fatto di metriche classiche e jazz, e rock “punk” fatto di basi modali, elettroniche con metriche letterarie, alte e demenziali. Il rock inteso come espressione “radicale”, nativa, non ha trovato collocazione in modo netto. Vasco Rossi e Zucchero hanno puntato riferimenti come Lou Reed e Joe Cocker avvicinandoli spesso per citazionismo e più raramente per reinvenzione, mettendo a sistema quel ponte musicale anglo-americano, vero e proprio transfert, tipico e ampiamente diffuso in modo parcellizzato e discontinuo già dagli anni ’30. Bobby Solo è rockabilly, Ligabue è folk rock tendente a Bruce Springsteen, Pelù è punk rock edulcorato, Elio e Le Storie Tese sono una costoletta zappiana quindi non etichettabili.

I Måneskin in Italia sono qualcosa di diverso da tutto ciò, ed è difficile trovare riferimenti nostrani affermati, se non embrionali. I Måneskin  hanno quindi trovato la cifra musicale per fare “rock italiano”.  Ma arrivano tardi quando il Rock classico, radicale, è internazionalmente morto.

La vittoria dei Måneskin sancisce l’entrata del rock in ambito popolare italiano ma essendo il rock “classico”, quello radicale, morto da quasi trent’anni, ne consegue che Sanremo abbia sancito definitivamente la morte del Rock. A questa relazione se ne aggiunge un’altra più locale. Non è un caso oggi che Sanremo e Rock stiano insieme pur costituendo un palese ossimoro relazionale. Sanremo è oggi più di prima un “salotto buono” e pertanto non può essere cattivo, mentre il rock è cattivo per definizione. E quando il salotto buono  accoglie il cattivo è segno che quest’ultimo non fa più paura. E se il rock non è più cattivo non è più rock. E’ forma, è estetica, è scontato, è riconoscibile, entra nel salotto buono in quanto esente da soprese, è arredo, perbenismo, non morde, anzi, allieta. Oggi è più trasgressiva la resistenza vera di Orietta Berti della finta novità rock. I Måneskin  sono perbenismo mascherato da cattivismo. Il vestito sporco di ieri è il vestito buono oggi. Il jeans è già strappato da tempo già in sartoria. I Måneskin non sono Achille Lauro che nega il riferimento abusandone, che supera il riferimento ostentandolo, che vuole essere “soprammobile” nel salotto buono per essere usato  nella consapevolezza di affermare autonomia e distanza. Achille Lauro è ciò che non è, si afferma per sottrazione emergendo come somma di tutto. Non è musica, non è teatro, non è cinema, non è video, non è letteratura, è evento che sparisce nel momento in cui si manifesta, è perfomance per il salotto buono dal quale prende forza l’enfasi del già visto/sentito/letto. Achille Lauro fagocita il salotto buono usando la finzione come amplificatore della realtà per frullare David Bowie e Carmelo Bene, per non essere né l’uno né l’altro, per non essere nulla, sparendo e dissolvendosi con la stessa facilità con cui appare, senza soluzione di continuità tra pubblicità e film, tra ambivalenza e antagonismo. E’ giullare di sé stesso per assenza della Corte. Esiste se esiste l’evento altrimenti sparisce. Non crea l’evento ma lo cerca e ci si innesta come una sanguisuga. Esige un contesto multimediale e virtuale, in analogico sparisce, e questo lo rende attuale. E’ il futuro di Luc Besson che è già passato. Achille Lauro diventa grande nella consapevolezza di non esserlo. E’ contenitore del vuoto. Si afferma sottraendosi, macchietta e icona di sé stesso, è “essere per fare”. I Måneskin sono l’opposto, accomodanti, assimilati, edulcorati, dejavu inconscio del “fare per essere”. Achille Lauro vuole essere usato per poter usare, i Måneskin non vogliono essere usati per poterlo essere. Il primo è alibi di altri, i secondi alibi di sé stessi. Entrambi specchio del Sanremo odierno, non più “festival della canzone italiana” ma “festival dell’azzeramento del rischio d’impresa italiano” con la musica in appendice. Specchi riflessi, Achille Lauro in prospettiva e Måneskin in retrospettiva. Achille Lauro può essere ciò che sarà, anche nulla, i Måneskin sono già meno di ciò che sono. La formula di Achille Lauro può contenere qualunque evoluzione vivendo sulla mutazione e sulla flessibilità del riferimento, la formula dei Måneskin vive sulla filologia diretta e per esistere deve necessariamente essere una “scatola” chiusa e rigida, che non può aprirsi ne cambiare forma, altrimenti perde i connotati di scatola. I Måneskin sono certezza, metodo, formula, cliché, e pertanto sono la morte del Rock che è l’opposto dell’irreggimentazione. Ciò non significa che i Måneskin non possano fare Musica, vuol dire semplicemente che se accettano di essere Rock accettano di essere mistificazione intrinseca, morti prima di nascere. Il rock può essere tutto tranne che cliché.

Fossi in loro inizierei con il contestare l’attribuzione di genere per poi cominciare a capire come fare musica “altra”. Di ottimizzazione in ottimizzazione non rimane più nulla, somme di infinitesimi tendenti a zero, zeri consapevoli e inconsapevoli, usati e usanti. Achille Lauro è il carnefice che cerca di passare per vittima, i Måneskin vittime che cercano di passare per carnefici. Il primo sopravvive a qualunque cosa fagocitandola, i secondi capitolano autofagocitandosi, inconsapevolmente, come zombie del Rock. Achille Lauro non sanno raccontarlo, possono solo diffamarlo, e questo è il suo plusvalore e la sua croce, culturale e popolare, a seconda della fronda in atto. I Måneskin sono già raccontati, certificati, quindi vetusti. E ciò che nasce vetusto ha vita breve. E se il Rock radicale è morto da molto tempo a livello internazionale non può certo rinascere in Italia dove non c’è mai stato. Da una parte c’è un establishment commerciale vecchio che non molla l’osso e continua a proporre il proprio trapassato, dall’altro un fronte giovanile, adolescenziale, che ignaro crede nuovo ciò che è già vecchio. Figli di padri che vogliono rimanere figli. L’establishment sta per morire portandosi dietro il proprio trapassato, e il fronte giovanile vive inespresso come “tappo generazionale”. Attenti Måneskin perché vi trovate esattamente nel mezzo, schiacciati tra passato e futuro “posteriore”.

In Italia oggi è totalizzante il rap, che è forma musicale a prevalenza “narrativa” (peraltro nata proprio in Italia con ‘o Pazzeriello napoletano) e, a fare da contraltare atemporale, il bel canto di Orietta Berti e Renga, spartiacque esclusivi, non inclusivi. Tirando le somme si può dire che a nulla siano serviti De André, Endrigo, Dalla, Battisti, Battiato, Bacalov, Area, Fossati, Conte, Zero, Bertè, Vanoni, Mina, Bardotti, Silvestri, Quintorigo, Gazzé, né i più intimi Cristina Donà, John De Leo e Ivan Segreto. C’è Malika Ayane senza autori come tutti. La Pausini “solo” internazionale.  A seguire un “oggi” incerto perché accomodante, che non graffia, fatto di “sorrisetti e canzonette”, con Colapesce e Dimartino, Willie Peyote, Coma_Cose e la piccola Madame, quest’ultima con buone potenzialità creative. E c’è Mahmood che, ben oltre sé stesso e da solo, ci dice che solo la cultura produce altra cultura.

Che il Rock sia morto è una buon notizia per i Måneskin che potranno evitare di cavalcare la speculazione commerciale della “dimenticanza generazionale”, evitando un’Esistenza equivoca che, in quanto tale, dura tipicamente il tempo di un chiarimento, il tempo di un “chiaro di Luna”.

Marco Valerio Masci

Foto di testa: Marco Valerio Masci, “Luna”, fotografia digitale (Panasonic DMC-TZ3), 31 ‎ottobre ‎2009, Castiglione a Casauria (PE)

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