Quel Ponte è “sperimentazione”

Quel Ponte è “sperimentazione”

QUEL PONTE È “SPERIMENTAZIONE”

Il New York Times ha redatto un ottimo articolo, sia tecnico che divulgativo, “Il Crollo del Ponte di Genova: La Strada verso la Tragedia” (tradotto in italiano al link: https://www.nytimes.com/interactive/2018/09/08/world/europe/genoa-italy-bridge-italian.html?smid=tw-nytimes&smtyp=cur).
Vi invito a leggerlo. Questo articolo ci dice indirettamente che il giornalismo professionale non basta, serve anche un giornalismo “tecnico” che in Italia è ostacolato da sempre (gli articoli tecnici non sono considerati utili per acquisire il titolo di “giornalista”). Il giornalismo da noi senza una legge sulla “reciprocità del danno” (solo la Gabanelli ne ha parlato quando le tolsero la tutela legale aziendale) sarà sempre e solo nella maggior parte dei casi espressione di cattiva letteratura, nella peggiore portavoce. Più direttamente l’articolo ci dice chiaramente quanto la struttura del Ponte Morandi fosse un “azzardo” da sempre. E quando un problema è da sempre manifesto la sua soluzione lo è altrettanto. Il prof. Brencich sull’emittente La7 ha sottolineato che gli stralli del Ponte lavorano in precompressione (qui un’intervista: https://www.linkiesta.it/it/article/2018/08/14/ponte-morandi-parla-il-professore-che-lancio-lallarme-progettato-male-/39127/).
I tiranti (stralli) hanno i ferri interni e il calcestruzzo che li ricopre è “precaricato a compressione”, condizione che fece molto discutere già all’epoca poiché il cemento armato precompresso nasce per le travi dove tipicamente la sezione lavora in due parti, una reagente a trazione e l’altra a compressione. La precompressione fa lavorare a compressione anche la parte a trazione per ridurre la sezione reagente di quest’ultima. La precompressione avviene attraverso il pre-tiro dei cavi che vengono rilasciati quando la colata di cemento che li avvolge si è essiccata (ha tirato). In quel momento i cavi comprimono il cemento che è noto lavora prevalentemente a compressione (a trazione ha un apporto trascurabile). Ora la sezione degli stralli è tutta reagente a “trazione” e la precompressione agisce su tutta la sezione (normale alla stessa). In altri termini lo strallo in sede operativa si comporta come un “elastico”, dove la sezione reagente in cemento va in compressione e decompressione continua, azione dinamica che produce micro fessurazioni in un corpo anelastico qual è il cemento. Da qui l’instabilità fisiologica del sistema che cerca la snellezza massima e considera la debolezza del cemento ma la sottovaluta quando soggetto a continua azione dinamica (vale per qualunque materiale lavorasse prevalentemente a compressione). In altri termini, che senso ha fare un tirante precompresso quando la sezione reagente, tutta normale allo sforzo, è tutta coinvolta in trazione e non presenta alcuna parte in compressione? Che senso ha chiedere al cemento di lavorare “a trazione” aiutandolo con la precompressione? L’effetto che si ottiene è appunto una sorta di “elastico fragile”, che è un ossimoro tecnico oltre che letterario, tendente velocemente all’incrudimento. Si cerca di ottenere un apporto di collaborazione portando un materiale rigido a comportarsi elasticamente, non facendo altro che favorirne il logoramento veloce per micro fessurazione dovuta al fatto che un materiale rigido non acquista mai elasticità, motivo per cui il precompresso lavora aumentando la sezione a compressione e riducendo quella a trazione. Come dire che si è aggiunta una debolezza e non una forza. Ed infatti ad un anno dalla loro realizzazione i tiranti presentavano già microfessurazioni. Sarà lo stesso Morandi a dirlo tra il 1979 e il 1982 con alcuni dossier/relazioni (https://www.ingenio-web.it/20904-cosa-scriveva-riccardo-morandi-nel-1979-del-ponte-polcevera-in-un-rapporto-internazionale).

Marco Valerio Masci, Ponte Morandi, 16-08.2018
Note: immagine by Google Maps

Per comprendere come Morandi arrivi a questa scelta dobbiamo capire il suo modo di progettare indagando la sua opera. Per necessità di sintesi facciamo un confronto tra Morandi e Nervi individuando un elemento paradigmatico del loro differente modo di operare; la soluzione terminale della “A” del Ponte di Genova. Al vertice della “A” si biforcano gli stralli. L’innesto di questi al vertice della “A” è minimizzato formalmente, non presenta alcun elemento esplicito, protesico, che faccia da tramite tra vertice della A e stralli, non c’è nemmeno un inspessimento strutturale. L’innesto avviene con la stessa leggerezza del filo (stralli) passante per la cruna di un ago (vertice della “A”). E’ formalmente la chiave di volta del progetto. Lo stesso Morandi le chiama “A” (https://www.youtube.com/watch?v=8x-tNFBr_ds non “compasso” che permetterebbe soluzioni formali-strutturali più articolate) sottolineando la ricerca di un approccio progettuale “lineare”, stiliforme, approccio che lo distingue appunto dal massivo Nervi. Morandi cerca di modellare il calcolo in funzione della forma. Nervi modella la forma in funzione del calcolo. Questo porta Nervi a non ricercare il limite dimensionale che per Morandi è il paradigma. Quest’ultimo stilizza la massa, il primo la innerva. Da qui la ricerca di Morandi “in levare” contraddetta dall’intervento di consolidamento del 1990 dove compare un “cavallotto” a raccordare i nuovi cavi saldamente alla testa della “A”. E’ un intervento strutturalmente esplicito, alla Nervi, è un interferenza linguistica che azzera l’idea strutturale morandiana di base. L’essenzialità formale della “A” è compromessa. E questo è inaccettabile per il paradigma progettuale/formale di Morandi. Il “cappellotto” è necessario e, in quanto tale, appare come una “ammissione di colpa”. Lo stesso Morandi con il “Viadotto Carpineto” di Vietri (PZ) modifica la testa della “A” rinunciando a quell’essenzialità formale per inserire un rinforzo strutturale massivo. E’ la dichiarazione della vulnerabilità dell’attacco tra pilone e strallo sul Polcevera.
Come sovente accade nei “fattacci”, le prime dichiarazioni contengono la verità, poi piano piano si reimpasta tutto. La parola chiave per il ponte Morandi è “fessurazione”, rivelatasi sin da subito eccessiva e ritenuta oggi fisiologica per questa rara tipologia strutturale. Ed è qui il dramma di una nazione dove gli apparati non comunicano né all’esterno, né tra loro (enti solipsistici, stilisti per stiliti), dove non esistono né terzi, né concorrenti. A conferma di ciò il prof. Brencich ci dice che il sistema strutturale del Ponte Morandi, ritenuto critico sin dagli anni ’60, per affermarlo Morandi lo brevettò (M5). Da qui il titolo dell’articolo. Un brevetto strutturale può scavalcare la teoria limite, non verificata, su cui si basa? Giusto o sbagliato, si. Un brevetto non deve essere dimostrabile, è solo una tutela legale dell’idea, anche se irrazionale. Con il brevetto M5 Morandi avrebbe aggiunto un elemento di credibilità, non scientifico ma commerciale, formale. Ed è qui che si manifesta il cortocircuito tra “sperimentazione” e realtà.

(foto fonte: wikipedia)

Si sta aprendo la questione dei sensori, questione che va spiegata suddividendola almeno in due parti. Abbiamo 1) cedimenti per “spostamento” degli elementi di connessione (che è il caso dei cavalcavia che sono crollati), dove il monitoraggio con sensori è utile poiché lo spostamento è un dato riscontrabile e quantificabile, quindi è un dato che può assumere valore di “segnale premonitore” in relazione agli incastri e ai giunti; 2) cedimenti per “collasso” che è quanto sembra sia successo al Ponte Morandi dove in sintesi la struttura avrebbe ceduto dall’interno, per “implosione”. In questo caso i sensori possono essere utili ma solo qualitativamente poiché non c’è ad oggi una parametrazione esatta che permetta di pesare con certezza gli apporti “vibrazionali” provenienti dall’interno della struttura. Il New York Times fa riferimento al prof. Gentile come “musicista” in quanto la sua tecnica predittiva basata sull’analisi delle vibrazioni non sarebbe ritenuta ancora una “scienza verificata”. Lui stesso ci dice che le misurazioni effettuate “probabilmente” (non certamente) stavano ad indicare un futuro cedimento dei ferri. A chiudere la questione il New York Times scrive <<“Non c’è niente di più impreciso del provare a valutare le condizioni dei cavi interni, (…) E’ una scienza assai imperfetta”, firmato Gary J. Klein>>. Quindi, i sensori possono essere utili per rilevare “spostamenti”, mentre per gli aspetti “vibrazionali” assumerebbero valore sperimentale, per ottenere casistiche da mettere, forse, un giorno a sistema per creare una parametrazione. Detta in altri termini più brutali, nessuno sa quanto dura il c.a. e quindi nessuno sa quali segnali di preavviso emetterà che non siano quelli rilevabili “a vista” (spostamenti, fessurazioni, dilatazioni, ecc…). E se pensiamo a quanta edilizia in cemento armato . esiste vengono i brividi.
Quanto mostrato da L’Espresso con l’articolo “Ponte Morandi, le foto shock prima del crollo: travi rotte e cavi ridotti del 75 per cento” (http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/09/13/news/ponte-morandi-1.326939?ref=RHRR-BE), è impressionante. Conferma concretamente quanto da sempre emerge anche solo ragionando esclusivamente sulle logiche progettuali, costruttive ed operative che caratterizzano le nostre opere. Non abbiamo ancora definito quantitativamente cosa sia un “progetto” benché si dica che sia al centro del nuovo codice appalti, allo stesso modo di come non abbiamo definito criteri per redigere un capitolato speciale d’appalto. Brevi cenni spot che fanno capire il trend negativo che dall’allungamento dei tempi di realizzazione di un’opera (Nuvola di Fuksas) arriva alla totale irrealizzazione della stessa (Vele di Calatrava). Quanto accaduto a Genova è quindi solo pura conseguenza. Tutto questo può accadere perché accade da sempre, e un qualcosa che accade da sempre è perché può accadere, non per negligenza, ma perché non ci sono quegli “elementi”, quelli che tutto il mondo chiama “protocolli”, che impongano comportamenti diversi e verificati. Tutto ruota attorno all’assenza di “verticismo” tra i vari enti/apparati preposti. Tutti appiattiti tra loro, nessuna logica di prevalenza. Tutti si esprimono ma nessuno governa.
L’applicazione pratica di questa “deresponsabilizzazione organizzata” è che preso atto del gravissimo stato di ammaloramento dei cavi si sarebbe dovuto e potuto quantomeno impedire immediatamente il passaggio dei mezzi pesanti ed eccezionali. Ma l’assenza di vertice decisionale inibisce alla base qualunque possibilità di intervento diretto. Evidentemente in Italia per sistemare le cose si attende l’evidenza dei fatti.
Il Ponte Morandi, più di tante altre tragedie che non hanno il dono della “visibilità”, sta portando alla luce aspetti deteriori, noti da sempre, talmente sedimentati socialmente da apparire fisiologici, “inevitabili”, naturali, irreversibili. Il sistema che ci siamo creati non ci aiuta, non controreaziona sé stesso, le proprie disfunzioni, e l’interesse personale impera sovrano, governando ovunque e comunque. Siamo quelli che da un lato non creano la legge sul conflitto d’interessi per mantenere viva l’autodeterminazione di “chi può”, e dall’altro generano una legge sull’esproprio talmente autoritaria e indifferente al diritto del cittadino da farlo apparire “privato” solo perché derubato.
La storia del ponte Morandi era quindi sostanzialmente già scritta, come lo era Ischia con i suoi “non-adeguamenti” sismici in ragione dei condoni edilizi, come lo era Rigopiano con i suoi non recepimenti “tecnico-urbanistici”, come lo sono stati tanti altri eventi passati e come lo saranno quelli futuri finché non si capirà che questi disastri sono frutto diretto dell’assenza di “regole di base” volutamente assenti da sempre per poter governare a proprio piacimento senza introdurre mai quegli “elementi” che permettano di controreazionare a monte questo operato “asociale”. E in tutto questo gli Ordini professionali sarebbero i primi responsabili, ma sono tecnicamente deresponsabilizzati. Non è una questione di burocrazia che, deve essere chiaro, è l’effetto dell’assenza di regole di base, non causa delle inefficienze. La burocrazia è una nebbia che si infittisce sempre più per allontanare la possibilità di vedere cosa la alimenta, l’assenza di regole di base appunto L’introduzione delle regole di base conterrebbe la possibilità di ottenere vantaggi personali, vantaggio che l’italiano non vuole perdere e ipocritamente, in perfetto atteggiamento mafioso, ormai connaturato, si lamenta facendo due parti un una commedia. La domanda sorge spontanea, il M5S non ha capito della necessità di creare queste “regole di base” per opportunismo peloso come tipicamente hanno sempre fatto più o meno tutti i governanti italici oppure perché tecnicamente non ha gli strumenti per capirlo? Si ricorda la frase del Ministro Fassina che a Porta a Porta disse gattopardianamente “il sistema va cambiato senza toccarlo”. Un miracolo è più semplice.
La questione quindi ruota attorno all’assenza di “regole di base” che hanno permesso quanto accaduto e accade da sempre. Non metto in relazione l’accadimento del Ponte Morandi al M5S, metto in relazione quest’ultimo alla possibilità di agire introducendo elementi di “controreazione” (regole di base) che contengano accadimenti negativi di questo tipo. Se non si fa questo non ci sarà mai alcuna possibilità di regolare in modo “verificato” l’operato di qualunque fatta o natura. Non è una questione di “onestà” ma di “strumenti” che, in assenza di regole di base a cui dovrebbero poter fare riferimento, sono impossibili da applicare e/o gestire.
Si fa un esempio tra gli innumerevoli possibili. Nulla impedisce la realizzazione di unità di abitazione sotto i ponti. In molti casi non esiste nemmeno una chiara attribuzione di proprietà del terreno sottostante i ponti, se del gestore del viadotto o del Comune/demanio. Come un tale buco possa non essere mai stato rilevato e colmato è spiegabile solo come espressione diretta della volontà di non mettere mai mano alle “regole di base” la cui assenza, da sempre, permette la formazione di tutto quanto accade di surreale in Italia. Ribadiamo un concetto anticipato poco sopra. Le cose accadono perché possono accadere. E quando accadono troppo spesso è perché “si vuole” accadano. E questo è possibile perché c’è un “qualcosa” che fa si che possano accadere sempre e comunque. E quel qualcosa è sempre e solo determinato da una “assenza rispettata” , non una presenza non rispettata come si vuole far credere. L’Italia è tecnicamente somma di infiniti dettagli, mancante totalmente d’impianto generale. E’ un’Italia che sperimenta in luogo della concretezza (attuazione, enti) e concretizza in luogo della sperimentazione (ricerca, università). E se ci aggiungiamo che nessuno sa quale sia la durata del cemento armato., e che è molto difficile riconoscere i segnali di cedimento dei ferri, e che quindi il crollo avverrebbe quasi sempre per “collasso/implosione”, allora ci rendiamo conto che tutta l’ingegneria edilizia in cemento armato è stata ed è tuttora una sperimentazione. E questo problema non è solo nostro ma internazionale.
Chiudo con una desiderata. Un ponte che duri 1000 anni è facile realizzarlo. Se Piano ci vuole stupire deve doppiare la durata dei ponti romani e arrivare almeno a 4000 anni. Se ci promette questo facciamoglielo fare. Tanto nel 6000 avremo inventato la macchina del tempo e torneremo per far di conto. Di seguito la mia proposta che dono anch’io. E’ garantito però solo 2037 anni.

Progetto Ponte Polcevera (Marco Valerio Masci)

Marco Valerio Masci

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